Guida alla lettura
A voler utilizzare un termine della cinematografia moderna, si potrebbe dire che “Il sabato del villaggio” è sorta di prequel a “La sera del dí di festa”. Le suggestioni pittoriche e musicali sono molto simili, ma mentre là si tratteggiava l’angoscia per la caducità delle cose umane che coglieva il poeta al termine della domenica («fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia»), qui si descrivono le aspettative del giorno precedente, «di sette il più gradito… / pien di speme e di gioia» e in cui «diresti che il cor si riconforta». Aspettative destinate però ad esser ben presto deluse: «Diman tristezza e noia / recheran l’ore, ed al travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno», una condizione tipica dello stato depressivo.
La lirica si compone di quattro quadri. Il primo accoglie immagini trasfuse di serenità: la fanciulla che torna dalla campagna, impaziente di adornarsi di fiori per la festa; la vecchiarella che, sedendo a filare, ricorda la propria giovinezza; il lento imbrunire alla luce della luna appena sorta; i fanciulli che giocano in piazza, mentre il contadino torno alla “parca mensa” pregustando il riposo. Il secondo è un interludio: cala la notte, tutto tace, solo il fabbro e il falegname si affrettano ancora al lavoro. Il terzo è il fulcro emotivo della composizione: dei sette giorni della settimana, non è la domenica il più sereno, ma proprio il sabato, perché l’uomo, più che di gioia reale, gode dell’aspettativa della gioia. Nel quarto, infine, il poeta riprende il parallelo fra il sabato e la fanciullezza, già anticipato al termine di “La sera del dí di festa”, esortando il fanciullo ad assaporare la breve stagione dell’adolescenza prima che la “festa” della vita – gli anni a venire, sin dalla giovinezza matura – si mostri diversa da come si era sognata.
Nello Zibaldone, Leopardi aveva scritto: «La felicità è sempre futuro, cioè non esistendo né potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del vivente, o nella speranza o aspettativa che ne segue». Parole di cupo pessimismo: un pessimismo che seppe poi trasfondere in versi immortali, ma che segnò aspramente tutta la sua vita. Ciò che rende l’esistenza degna di essere vissuta è, invece, proprio la capacità di far corrispondere alle promesse del “sabato” la pienezza della “domenica”: ossia la capacità di realizzare i propri sogni, e impedire che divengano rimpianti, coltivandoli giorno dopo giorno con lucidità, amore e determinazione.
La famiglia e la scuola dovrebbero essere le prime a infondere nei ragazzi la consapevolezza di questa priorità, perché nella vita non ci sono prove generali, non si può tornare indietro, e il tempo che ci viene concesso è troppo breve e prezioso per poter andare perduto. Ma oggi, scuola e famiglia, sono ancora all’altezza del loro compito? Rispondere a questo interrogativo e riflettere sulle possibili azioni correttive è uno dei compiti più urgenti della società.
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni nell’età piú bella.
Già tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.
II
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi al chiarir dell’alba.
III
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
IV
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
Biografia
Negli anni dell’adolescenza Giacomo studia il latino, il greco e l’ebraico, avviando quella vita di studio intenso che più tardi chiamerà “matto e disperatissimo”. Inizia a comporre versi, traduce autori classici (Virgilio, Orazio, Mosco, Frontone), scrive lavori eruditi, fra cui una “Storia dell’astronomia”. Ma la salute inizia a risentirne: mostra i primi sintomi di depressione e i primi problemi alla colonna vertebrale. Il fratello Carlo scriverà di averlo visto più volte, svegliandosi nel pieno della notte, «in ginocchio avanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva».
Fra il 1816 e il 1817 vive la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dall’erudizione alla poesia (“lettere belle”), e inizia a maturare quell’amore per la gloria artistica che, anche nei momenti più tristi della sua vita, gli sarà di qualche conforto. Nel 1817 si innamora della cugina Geltrude Cassi, di passaggio a Recanati: per lei scrive un appassionato “Diario d’amore” e l’elegia “Il primo amore”. L’anno successivo muore Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi: dieci anni dopo il poeta la canterà, in uno dei suoi canti più intensi, con il nome di Silvia.
Nel 1819 lo stato sempre più precario della salute, la freddezza dell’ambiente familiare, l’intolleranza per il “borgo selvaggio” di Recanati lo spingono ad abbandonare la fede religiosa e ad abbracciare una concezione materialistica della vita: è la “conversione filosofica”, che fa di lui un precursore dell’esistenzialismo. A luglio tenta invano di fuggire da casa, dopo aver scritto al padre una lettera traboccante di amarezza e di ambizione: «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi». Forse a settembre, compone “L’infinito”, il primo degli idilli, cui seguiranno – negli anni immediatamente successivi – “La sera del dí di festa”, “Alla luna” e “La vita solitaria”.
Nel 1822 si trasferisce a Roma, ma non ne prova alcun piacere: la vita letteraria locale lo delude profondamente. Nel 1823 torna a Recanati, e l’anno successivo scrive le “Operette morali”. Fra il 1825 e il 1828 visita Milano, Bologna (ove si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi), Firenze, dove conosce Alessandro Manzoni, e Pisa. Qui, sollevato dalla dolcezza del clima, compone «versi veramente all’antica e con quel cuore d’una volta»: nascono “Il risorgimento” e “A Silvia”.
Tornato per l’ultima volta a Recanati, termina di comporre quelli che verranno ricordati come “canti pisano-recanatesi”: “Le ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio” e “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze, ove conosce e ama appassionatamente la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, e si lega con fraterna amicizia ad Antonio Ranieri, esule politico napoletano. A Firenze compone una serie di canti ispirati all’amata, fra cui “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”. Nel 1833 si sposta a Napoli con l’amico Ranieri, e prende dimora in una villa alla falde del Vesuvio: qui comporrà “La ginestra” e “Il tramonto della luna”.
Gli ultimi anni di vita sono segnati da sofferenze fisiche sempre più crudeli, in particolare a causa dell’asma. Muore il 14 giugno 1837. Le sue ceneri riposano presso la tomba di Virgilio nel Parco Vergiliano di Piedigrotta. E’ ricordato e amato come il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura di tutti i tempi.