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Il passero solitario

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24/07/2013

In: Giacomo Leopardi, Poesie e prose. Vol. 1: Poesie, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2006

Guida alla lettura

Proseguiamo, con “Il passero solitario”, l’analisi del sentimento di malinconia che accompagnò la vita di Giacomo Leopardi, vera depressione in cui si dibatté fin dalla giovinezza senza poterne guarire. La lirica si svolge in tre strofe: le prime due stabiliscono una somiglianza fra la solitudine del passero e quella del poeta, in contrapposizione alla festa di primavera (15 giugno, san Vito, patrono di Recanati) che allieta gli uomini e la natura; la terza fissa invece la differenza fra l’animaletto, che è solitario per istinto e dunque non avrà rimpianti «venuto a sera del viver», e il poeta, il quale finirà invece per dolersi del suo fuggire lontano dalla compagnia degli uomini, e dall’amore.
Il dramma di Leopardi, che pur fu assetato di affetti, si consumò proprio nel non badare al «sollazzo e riso», anzi nel fuggirne lontano, rinviando sempre ad altro tempo «ogni diletto e gioco». E quella frase sussurrata quasi di sfuggita – «non curo, io non so come» – esprime con grande efficacia tutta l’angoscia di un cuore incapace di abbandonarsi alle relazioni, pur desiderandole, incatenato alla solitudine come a un male oscuro e pervadente, che neppure gli «studi leggiadri» (A Silvia, v. 15) seppero placare. Chi conosce la morsa della depressione, percepirà come familiari le cupe tinte di questo quadro paradossale.
Scritto nel 1829, in uno stile levigatissimo, l’idillio presenta tutti i motivi più cari al poeta: il paesaggio e la natura recanatesi, le illusioni dell’amore e della giovinezza, il senso doloroso della solitudine, il desiderio e insieme il rimpianto di morire. E ancora l’inquieta tristezza al volgere del giorno (già cantata nella “Sera del dì di festa”, e che ritroveremo nel “Sabato del villaggio”), la certezza del rimpianto futuro per le tante gioie non godute, l’amaro confronto fra sé e i coetanei, vestiti a festa e allegri in cuore... «gioventù del loco» di cui però non resta nulla, nemmeno uno sbiadito ricordo – chi saprebbe ormai ricostruirne i volti e i nomi? – mentre il poeta vivrà per sempre attraverso i suoi versi.
Ma è pensabile che l’immortalità dell’arte possa riscattare e persino giustificare una vita di dolore? Il lascito di un genio ne compensa davvero le sofferenze? O ciò che conta sono la vita vissuta, la salute, la serenità, le gioie effimere ma belle, anche quando non producano frutti degni di essere ricordati? Non sono domande retoriche, nel senso che non esiste una risposta obbligata. Certo è che spesso dietro a un grande artista – poeta, pittore, compositore – si cela un destino aspro e dolente, che ben pochi si augurerebbero di ricevere in sorte. Ma senza quel dolore, noi avremmo quei capolavori? Qual è dunque, la risposta corretta? Che cosa è giusto, per l’umano che è in tutti noi? Le vette dello spirito o una vita quieta, anche se mediocre? Lasciamo a ciascuno di riflettervi nel proprio cuore.
D’in su la vetta della torre antica,
passero solitario, alla campagna
cantando vai finché non more il giorno;
ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
brilla nell’aria, e per li campi esulta,
sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
gli altri augelli contenti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
pur festeggiando il lor tempo migliore:
tu pensoso in disparte il tutto miri;
non compagni, non voli,
non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
canti, e così trapassi
dell’anno e di tua vita il più bel fiore.

Ohimè, quanto somiglia
al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
della novella età dolce famiglia,
e te german di giovinezza, amore,
sospiro acerbo de’ provetti giorni,
non curo, io non so come; anzi da loro
quasi fuggo lontano;
quasi romito, e strano
al mio loco natio,
passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla;
odi spesso un tonar di ferree canne,
che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
la gioventù del loco
lascia le case, e per le vie si spande;
e mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
rimota parte alla campagna uscendo,
ogni diletto e gioco
indugio in altro tempo: e intanto il guardo
steso nell’aria aprica
mi fere il Sol che tra lontani monti,
dopo il giorno sereno,
cadendo si dilegua, e par che dica
che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera
del viver che daranno a te le stelle,
certo del tuo costume
non ti dorrai; che di natura è frutto
ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
la detestata soglia
evitar non impetro,
quando muti questi occhi all’altrui core,
e lor fia voto il mondo, e il dí futuro
del dí presente più noioso e tetro,
che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
ma sconsolato, volgerommi indietro.

Biografia

Giacomo Leopardi nasce a Recanati il 29 giugno 1798 da famiglia aristocratica. Il padre è un uomo colto, ma incapace di comprendere la grandezza del figlio. La madre è rigida, poco affettuosa. La fanciullezza trascorre però serena: nel canto “Le ricordanze”, il poeta ormai adulto ricorderà che nelle vaste sale del palazzo paterno rimbombavano «i sollazzi e le festose mie voci».
Negli anni dell’adolescenza Giacomo studia il latino, il greco e l’ebraico, avviando quella vita di studio intenso che più tardi chiamerà “matto e disperatissimo”. Inizia a comporre versi, traduce autori classici (Virgilio, Orazio, Mosco, Frontone), scrive lavori eruditi, fra cui una “Storia dell’astronomia”. Ma la salute inizia a risentirne: mostra i primi sintomi di depressione e i primi problemi alla colonna vertebrale. Il fratello Carlo scriverà di averlo visto più volte, svegliandosi nel pieno della notte, «in ginocchio avanti il tavolino per potere scrivere fino all’ultimo momento col lume che si spegneva».
Fra il 1816 e il 1817 vive la cosiddetta “conversione letteraria”, ossia il passaggio dall’erudizione alla poesia (“lettere belle”), e inizia a maturare quell’amore per la gloria artistica che, anche nei momenti più tristi della sua vita, gli sarà di qualche conforto. Nel 1817 si innamora della cugina Geltrude Cassi, di passaggio a Recanati: per lei scrive un appassionato “Diario d’amore” e l’elegia “Il primo amore”. L’anno successivo muore Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di casa Leopardi: dieci anni dopo il poeta la canterà, in uno dei suoi canti più intensi, con il nome di Silvia.
Nel 1819 lo stato sempre più precario della salute, la freddezza dell’ambiente familiare, l’intolleranza per il “borgo selvaggio” di Recanati lo spingono ad abbandonare la fede religiosa e ad abbracciare una concezione materialistica della vita: è la “conversione filosofica”, che fa di lui un precursore dell’esistenzialismo. A luglio tenta invano di fuggire da casa, dopo aver scritto al padre una lettera traboccante di amarezza e di ambizione: «Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi». Forse a settembre, compone “L’infinito”, il primo degli idilli, cui seguiranno – negli anni immediatamente successivi – “La sera del dí di festa”, “Alla luna” e “La vita solitaria”.
Nel 1822 si trasferisce a Roma, ma non ne prova alcun piacere: la vita letteraria locale lo delude profondamente. Nel 1823 torna a Recanati, e l’anno successivo scrive le “Operette morali”. Fra il 1825 e il 1828 visita Milano, Bologna (ove si innamora della contessa Teresa Carniani Malvezzi), Firenze, dove conosce Alessandro Manzoni, e Pisa. Qui, sollevato dalla dolcezza del clima, compone «versi veramente all’antica e con quel cuore d’una volta»: nascono “Il risorgimento” e “A Silvia”.
Tornato per l’ultima volta a Recanati, termina di comporre quelli che verranno ricordati come “canti pisano-recanatesi”: “Le ricordanze”, “Il passero solitario”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio” e “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Nel 1830 parte per Firenze, ove conosce e ama appassionatamente la nobildonna Fanny Targioni-Tozzetti, e si lega con fraterna amicizia ad Antonio Ranieri, esule politico napoletano. A Firenze compone una serie di canti ispirati all’amata, fra cui “Il pensiero dominante” e “Amore e morte”. Nel 1833 si sposta a Napoli con l’amico Ranieri, e prende dimora in una villa alla falde del Vesuvio: qui comporrà “La ginestra” e “Il tramonto della luna”.
Gli ultimi anni di vita sono segnati da sofferenze fisiche sempre più crudeli, in particolare a causa dell’asma. Muore il 14 giugno 1837. Le sue ceneri riposano presso la tomba di Virgilio nel Parco Vergiliano di Piedigrotta. E’ ricordato e amato come il maggior poeta dell’Ottocento italiano e una delle più importanti figure della letteratura di tutti i tempi.
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