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Lettera d'amore

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13/01/2010

Love letter
in: Sylvia Plath, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2002

Guida alla lettura

Per questo primo appuntamento del 2010 abbiamo scelto una lirica che narra la possibilità di trovare nell’amore la forza per uscire dalla solitudine, dalla depressione, dalla paralisi dei sentimenti e delle emozioni. Una lirica, dunque, che parla di dolore, ma anche di riscatto e di una nuova speranza.
Lo stile di Sylvia Plath è come sempre intenso, intessuto di parole brevi come saette, immagini dure come metallo. I versi iniziali descrivono con impareggiabile efficacia la condizione di non-vita della poetessa prima dell’incontro con l’amato: incurante di tutto, come una pietra, incapace di volgere gli occhi al cielo e «comprendere l’azzurro, o le stelle». Gli amici, così solleciti nel portare consolazione, non sono che “angeli piangenti”, “teste morte” con “visiere di ghiaccio”, e a nulla valgono i loro sforzi per sciogliere il suo dolore. Ricordano Elifaz e Bildad, Zofar ed Eliu, teologi verbosi e inumani che non seppero alleviare, e anzi inasprirono, la sofferenza di Giobbe.
Poi l’evento, annunciato dalla visione di quell’aria trasparente, e dal levarsi in rugiada limpida e viva di quelle gocce – lacrime? – prima prigioniere dell’incantesimo: «Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante». E’ l’amore, il dono, come dirà in un sussurro l’ultimo verso. La vita torna a fluire, e le immagini si fanno gentili: Sylvia germoglia «come un rametto di marzo», e – pietra tramutata in nuvola – sale finalmente in cielo, ove potrà capire, ne siamo certi, l’infinita bellezza di quell’azzurro, di quelle stelle.
Dedichiamo questa poesia a tutte le donne che lottano per ritrovare pace e fiducia dopo un abbandono, una perdita, una malattia, perché continuino a credere – anche quando il male infuria come una tempesta – alla possibilità di amare ed essere amate.
Non è facile dire il cambiamento che operasti.
Se adesso sono viva, allora ero morta
anche se, come una pietra, non me ne curavo
e me ne stavo dov’ero per abitudine.
Tu non ti limitasti a spingermi un po’ col piede, no –––
a lasciare che rivolgessi il mio piccolo occhio nudo
di nuovo verso il cielo, senza speranza, è ovvio,
di comprendere l’azzurro, o le stelle.

Non fu questo. Diciamo che ho dormito: un serpente
mascherato da sasso nero tra i sassi neri
nel bianco iato dell’inverno –––
come i miei vicini, senza trarre alcun piacere
dai milioni di guance perfettamente cesellate
che si posavano a ogni istante per sciogliere
la mia guancia di basalto. Si mutavano in lacrime,
angeli piangenti su nature spente,
ma non mi convincevano. Quelle lacrime gelavano.
Ogni testa morta aveva una visiera di ghiaccio.

E io continuavo a dormire come un dito ripiegato.
La prima cosa che vidi fu l’aria, aria trasparente,
e le gocce prigioniere che si levavano in rugiada
limpide come spiriti. Tutt’intorno giacevano molte
pietre stolide e inespressive.
Io guardavo e non capivo.
Come un brillio di scaglie di mica, mi svolsi
per riversarmi fuori come un liquido
tra le zampe d’uccello e gli steli delle piante.
Non m’ingannai. Ti riconobbi all’istante.

Albero e pietra scintillavano, senz’ombra.
La mia breve lunghezza diventò lucente come vetro.
Cominciai a germogliare come un rametto di marzo:
un braccio e una gamba, un braccio, una gamba.
Da pietra a nuvola, e così salii in alto.
Ora assomiglio a una specie di dio
e fluttuo per l’aria nella mia veste d’anima
pura come una lastra di ghiaccio. E’ un dono.

Biografia

Sylvia Plath nasce a Boston (Stati Uniti) nel 1932. Il padre, di origini tedesche, è professore di entomologia; la madre proviene da un’austera famiglia austriaca e in casa parla solo tedesco.
Talento precoce, Sylvia pubblica la prima poesia nel 1940, a soli otto anni. Nello stesso anno, il padre muore di embolia in seguito a un’operazione chirurgica. Questo evento segna profondamente l’equilibrio della bambina, che in età adulta soffrirà di una grave forma di depressione alternata a momenti di intensa vitalità creativa.
Nel 1953 compie il primo tentativo di suicidio, cui segue il ricovero in un istituto psichiatrico, dove le viene diagnosticato una patologia nota come “disturbo bipolare”. Uscita dall’ospedale si laurea, con lode, nel 1955. Pochi mesi dopo ottiene una borsa di studio per l’università di Cambridge, dove approfondisce gli studi e continua a scrivere poesie. Al campus conosce il poeta inglese Ted Hughes, che sposa nel 1956 e dal quale avrà due figli, Frieda Rebecca e Nicholas. Nei tre anni successivi, insegna allo Smith College.
Trasferitasi con il marito in Inghilterra, Sylvia pubblica nel 1960 la prima raccolta di poesie, “The Colossus”. L’anno dopo subisce un aborto spontaneo: diverse liriche fanno riferimento a questo evento. Il matrimonio si incrina, anche per un tradimento di Ted, e la coppia finisce per separarsi.
Apparentemente rasserenata, Sylvia si stabilisce a Londra con i figli. Ma l’inverno del 1962 è per lei molto duro, con frequenti ricadute nella depressione. Nel gennaio 1963 pubblica con lo pseudonimo di Victoria Lucas il romanzo “La campana di vetro”, in cui descrive la crisi che l’aveva colpita nel 1953. Un mese dopo si toglie la vita, soffocandosi con il gas.
Vincitrice del Premio Pulitzer nel 1982, Sylvia Plath è ricordata come una delle più grandi poetesse statunitensi del Novecento.
Parole chiave di questo articolo
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