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Le radici della guarigione

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25/06/2008

Tratto da:
David F. Ford, Dare forma alla vita, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI), 2003, p. 211-214

Guida alla lettura

Ogni guarigione è complessa quanto la ferita che la rende necessaria, e non esistono rimedi e soluzioni a buon mercato: è questo il messaggio centrale della riflessione di David Ford, teologo anglicano fra i più brillanti del nostro tempo, sul dolore che affligge il mondo. Non dobbiamo cedere alla spiritualità fatalistica che esalta la sofferenza in quanto tale, né lasciarci dominare dall’attivismo che vorrebbe garantire benessere e controllo in ogni situazione della vita. Il giusto atteggiamento consiste nel riuscire ad attraversare la sofferenza, sapendo discernere quando e come assentirvi, e soprattutto imparando a darle un senso che si inquadri nel più generale significato della vita.
La tecnica ha un ruolo importante nella lotta contro il male, e Ford si guarda bene dal negarglielo: ma, avverte con chiarezza, essa si applica a una “gamma limitatissima di problemi”. Se vogliamo andare alla radice del male, e se soprattutto vogliamo che il viaggio nel territorio del dolore ci renda più maturi, più umani e anche più solidali, dobbiamo capire che la via della guarigione profonda e duratura richiede “amore, fiducia, compassione, perdono e un’ospitalità radicalmente inclusiva”.
L’assenso alla sofferenza è una lama di rasoio. Da un lato c’è quel genere di passività sbagliato che cede al male, perde di vista il valore della vita e della salute, e glorifica la sofferenza come qualcosa di buono in sé. Dall’altro lato c’è quel genere di attività sbagliato che rende l’eliminazione della sofferenza un assoluto, si sforza in ogni modo di ottenere benessere e controllo, e non riesce a vedere la superficialità e la noia di un mondo privo del rischio che le cose vadano male. In mezzo c’è l’apprendistato che si può svolgere soltanto presso coloro che conoscono il mestiere della sofferenza e hanno appreso quando, e come, accettarla e assentirvi...
Giungiamo, così, a un certo punto in cui gli interrogativi cambiano. Allora non ci chiediamo più in che modo evitare una particolare sofferenza, e neppure perché ci capiti. Invece, ogni nostra risorsa si concentra sul modo in cui potremmo attraversarla, e il nostro interrogativo massimo diviene (se sappiamo imparare da quelli che conoscono meglio il mestiere): a che scopo? Di fondo c’è la fiducia nel fatto che la sofferenza, il male e perfino la morte non hanno l’ultima parola sulla vita. Perciò Gandhi, nel film che Richard Attenborough gli ha dedicato, fronteggia fermamente la polizia alle miniere di sale, e uno dopo l’altro lui e i suoi seguaci subiscono i dolorosi colpi di bastone sulla testa e sul corpo. Perciò Gesù, nel Getsemani, accetta il calice e prosegue nel cammino verso la sua crocefissione.
Quale guarigione possiamo sperare, nella nostra sofferenza? Il desiderio va a qualcosa di magico, di pronta presa, il tocco o il medicinale miracoloso, la soluzione drammatica. E, occasionalmente, il miracolo avviene. Uno dei fatti meglio attestati, riguardo a Gesù, è che ha guarito delle persone. Dio è un Dio di sorprese, ascolta le preghiere e ha compassione della sofferenza. Domandare è sempre giusto. È altrettanto evidente, però, che la preghiera non è magia... Dio non è un Dio di soluzioni facili e istantanee. Non mancano segni di speranza, ma Dio si preoccupa soprattutto dell’amore e della fedeltà a lungo termine, di guarire cuori, menti e comunità tanto quanto i corpi. Come può compiersi, tutto questo, a meno che le singole persone e i gruppi non siano sinceramente coinvolti, nello scorrere del tempo? La guarigione è necessariamente radicale e complessa quanto la ferita. Ogni valutazione realistica di quel che significhi, in un mondo come il nostro, una guarigione piena, a lungo termine, deve parlare di processi costosi e rischiosi. Gli “interventi chirurgici” hanno il loro ruolo, ma riguardano una gamma limitatissima di problemi. Se la sofferenza profonda e il male potessero essere affrontati con formule, tecniche e una mentalità del tipo “a ogni problema la sua soluzione”, allora la nostra civiltà più che mai avrebbe potuto compiere progressi nel fare fronte alla guerra, la povertà, il debito, la violenza, la dipendenza, la crisi della famiglia, l’ingiustizia e la moltitudine di altri mali e miserie che riempiono i media.
Nel suo breve ministero, Gesù ha fatto del suo meglio per offrire aiuto a breve termine, guarendo e nutrendo. La tensione del suo insegnamento era, però, a raggiungere le radici del male e della sofferenza, e il suo annuncio del regno di Dio riguardava una guarigione che comporta amore, fiducia, compassione, perdono e un’ospitalità radicalmente inclusiva. Egli ha affrontato il fatto che questo genere di guarigione può essere offerto solamente da chi lo incarna in sé, a qualunque prezzo. Perciò egli stesso, nella propria vita, lo ha incarnato e con la propria vita ne ha pagato il prezzo. Ha offerto la propria vita in quel misterioso “scambio salvifico” che sta al cuore della fede e della liturgia cristiane...
La “buona notizia” è che il suo amore compassionevole, vulnerabile, è la via di guarigione attraverso la morte. La fiducia è nel fatto che non c’è abisso di sofferenza di male e di morte che egli non possa raggiungere. Lui e quelli che vivono e muoiono come lui sono balsamo per tutte le ferite.

Biografia

David Frank Ford (Dublino, 1948) è anglicano e, dal 1991, è Regius Professor di Cristologia e Teologia fondamentale e contemporanea all’Università di Cambridge, primo laico a ricoprire questo ruolo. I suoi scritti sono ispirati principalmente dalla teologia post liberale e narrativa.
I suoi interessi più recenti vertono sull’interpretazione della Sacra Scrittura alla luce del dialogo ecumenico e interreligioso, e nel contesto dello scenario internazionale successivo all’11 settembre. Il suo impegno mira da sempre ad «attingere da ogni tradizione interpretativa di testi sacri non cristiani spunti adatti a ripensare la stessa lettura cristiana della Bibbia, nonché per promuovere cammini di incontro tra le diverse tradizioni religiose» (Dare forma alla vita, Prefazione, p. 6). Si occupa anche dei rapporti delle religioni con le culture e le tradizioni secolari.
Sposato, con tre figli, collaboratore delle comunità dell’Arche fondate da Jean Vanier, unisce alla competenza accademica una passione per tutto ciò che è umano e una spiccata attenzione per la dimensione poetica dell’esistenza. Il volume da cui è tratto il passo è il suo primo libro tradotto in italiano.
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