Guida alla lettura
Alla base di questa scelta, che lo porterà a spendere la sua esistenza fra i lebbrosi dell'Africa, non troviamo un complesso sistema di pensiero, una comprensione teorica del significato del mondo, ma la semplice constatazione che l'etica non è altro che rispetto per la vita e che il bene consiste nel permettere a ogni vita di raggiungere - con realismo - il suo massimo sviluppo possibile.
Quale sarà la mia attitudine verso la vita altrui? Può soltanto essere strettamente legata all'attitudine verso la mia vita. Se sono un essere che pensa, devo considerare la vita altrui con lo stesso rispetto con cui considero la mia. Saprò infatti che quella anela alla completezza e allo sviluppo tanto profondamente quanto anelo io. Perciò vedo che è male ciò che annienta, ostacola od ostruisce la vita. E questo vale sia che la si consideri dal punto di vista fisico che da quello spirituale. A sua volta, è bene conservare ed aiutare la vita, permettere a qualunque vita, su cui posso esercitare un influsso, di raggiungere il suo massimo sviluppo possibile.
Come posso descrivere quello che sento quando viene portato da me un povero disgraziato in queste condizioni di ernia strozzata? Sono l'unica persona in un raggio di centinaia di chilometri che possa aiutarlo. Poiché io sono qui e i miei amici mi riforniscono dei mezzi necessari, posso salvarlo, così come salvai coloro che vennero prima di lui nelle stesse condizioni e salverò coloro che verranno dopo di lui, che altrimenti dovrebbero soffrire disumanamente. Questo non significa che io possa salvare la loro vita. Dobbiamo morire tutti. Ma posso salvarli da giorni di tortura, e questo lo considero il mio grande e continuo privilegio. Il dolore è un tiranno dell'umanità più terribile della morte stessa.
L'operazione è finita e nel dormitorio scarsamente illuminato aspetto che il paziente si svegli. Non ha neppure ripreso completa conoscenza quand'ecco che si guarda intorno e si mette a esclamare ripetutamente: «Non sento più dolore! Non sento più dolore!». La sua mano cerca la mia e non la lascia andare.
La luce del sole africano che brilla attraverso i cespugli di caffé penetra nell’oscura baracca; noi bianchi e neri sediamo l'uno vicino all'altro e sentiamo di conoscere per esperienza il significato delle parole: «Siete tutti fratelli».
Nel 1908, si iscrive alla Facoltà di Medicina dell'Università di Strasburgo. Scrive: «Il progetto che stavo per mettere in atto lo portavo in me già da lungo tempo. Mi riusciva incomprensibile che io potessi vivere una vita fortunata, mentre vedevo intorno a me così tanti uomini afflitti da ansia e dolore... Ma quando mi annunciai come studente al professor Fehling, allora decano della Facoltà di Medicina, egli avrebbe preferito spedirmi dai suoi colleghi di psichiatria!».
Si laurea nel 1911, si specializza in malattie tropicali e due anni dopo si trasferisce a Lambaréné, una città del Gabon occidentale in quella che era allora una provincia dell'Africa equatoriale francese. I missionari sono inizialmente scettici sul suo progetto. Schweitzer si impegna allora a raccogliere fondi per conto proprio, mobilitando amici e conoscenti, e tenendo concerti e conferenze. Ad aiutarlo una giovane donna, Hélène Bresslau, che diventerà presto sua moglie.
Gli inizi sono difficili: oltre a dover lottare contro la natura inospitale, deve vincere la diffidenza degli indigeni, che si fidano solo dei loro stregoni. Schweitzer non si dà per vinto: a poco a poco costruisce un vero e proprio “villaggio ospedaliero”, in cui gli ammalati possono stabilirsi con le loro famiglie e mantenere le loro usanze.
Nel 1952 Albert Schweitzer riceve il Premio Nobel per la Pace: con il ricavato fa costruire per i lebbrosi "Le village de la lumière”, il villaggio della luce.
Muore a Lambaréné il 4 settembre 1965.