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Il dono di mia madre

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25/01/2017

Tratto da:
Enzo Bianchi, Perdendo “la Pifania” ho trovato un tesoro, La Stampa, 6 gennaio 2017

Si ringrazia l’Autore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Enzo Bianchi è da tempo amico del nostro sito: da molti anni le sue riflessioni, tratte da libri, riviste e quotidiani, animano questa rubrica, illuminandoci sul significato che il dolore ha nella vita del cristiano e di tutti noi. Ma quello che oggi proponiamo è forse il suo articolo più bello: lo dedichiamo a tutti i bambini del mondo e alle mamme che li amano.
Il racconto di Bianchi ci parla di infanzia e vita adulta, di povertà e speranza, di sacrifici e piccole gioie; della commovente storia, oggi ormai dimenticata, della vecchia Befana e dei suoi doni; di «un’ora della sua vita in cui gli è sembrato che un mondo andasse in frantumi»; ma soprattutto di un amore, quello di sua madre per lui, così grande e autentico da alimentare in profondità la sua fiducia nella vita e la sua capacità di amare a propria volta, senza riserve. Quando infatti il piccolo Enzo, per un evento imprevisto, si rende conto che la Befana in cui tanto confidava non esiste, la madre con dolcezza lo prende fra le braccia e, nel momento in cui conferma la fine di un’illusione, rafforza una certezza che non verrà mai meno: « Ora sei grande. E’ ora che tu sappia che i regali te li facciamo io e papà perché ti vogliamo bene».
Il piccolo Enzo mediterà in cuor suo quelle parole, crescerà con esse e grazie ad esse: da esse imparerà il valore del dono, l’importanza di un’attesa e di un desiderio bene orientati, l’urgenza della responsabilità verso gli altri. Sino a scrivere con audacia: «Non dalla Befana, non dal cielo, al limite nemmeno da Dio occorre aspettare quello che possiamo attendere dalla terra, dalle persone che incontriamo, che ci amano e che amiamo. E a nostra volta dobbiamo sapere che solo noi siamo il dono che le persone che amiamo hanno il diritto di attendersi». Nella memoria e nel cuore, il dono di sua madre costituirà per sempre la base sicura di questa consapevolezza.
Anche la fiaba della Befana ci offre un insegnamento importante. La vecchina parte per onorare il Re dei re ma, non sapendo dove trovarlo, lascia cadere un regalo nel camino di ogni casa in cui vive un piccolo. Il sentimento di amore per Gesù bambino feconda il suo cuore e lo dilata sino a renderlo capace di una generosità senza limiti, tale per cui nessuno viene dimenticato. In un mondo attraversato dal dolore, quella remota vicenda ci ammaestra ad uscire dal microcosmo dei nostri affetti privati, pur preziosi e insostituibili, per donare a chi non ha nulla un poco del calore che conforta la nostra vita.
Ognuno di noi ricorda un momento, un’ora della sua vita in cui gli è sembrato che un mondo andasse in frantumi. Forse non un mondo, ma un sogno, una credenza salda che si rivelava essere invece una menzogna, provocando tristezza, se non dolore. Per me la fine dell’infanzia fu segnata proprio dalla fine di un’illusione, alla vigilia de “la Pifania”, come chiamavamo tra le colline del Monferrato l’ultima festa del buio inverno.
In quegli anni del dopoguerra, le feste erano solo quelle di Natale, ed erano giorni in cui a noi bambini sembrava quasi di essere al centro dell’attenzione. Dico “quasi” perché le famiglie di allora avevano molti bambini ed essendoci problemi più gravi come la fame e le malattie, alla vita spicciola dei bambini non si badava più di tanto. Ma Natale riusciva a destare in tutte le famiglie il desiderio di donare qualcosa, e i destinatari naturali erano i bambini. Da piccolo non ho mai visto un genitore fare un regalo al coniuge o scambiarselo con i figli adulti, ma ai bambini i “regali di Natale” sembravano spettare di diritto. E i doni erano ben poca cosa se paragonati a quelli odierni: un po’ di cioccolato, fichi secchi, noccioline ed eventualmente un paio di calze di lana o una sciarpa fatte a mano dalla nonna.
Ogni casa allora aveva un camino, al quale noi bambini appendevamo una calza nella speranza che venisse riempita dalla Befana. Pifania, Befana, era il modo in cui si era semplificato, e storpiato, il nome greco di questa festa: “Epifania”, cioè manifestazione del Figlio di Dio all’umanità. Ma cosa volete che ne sapessimo di greco noi bambini? Per noi quella festa della “Pifania che tutte le feste le porta via” era semplicemente l’ultima occasione di allegria: poi sarebbero tornati i giorni grigi con la neve, la scuola da raggiungere ogni giorno a piedi in mezzo al gelo, il freddo che la faceva da padrone nelle nostre case, soprattutto in camera da letto, autentica ghiacciaia.
Ogni anno ascoltavamo affascinati la “storia”, come fosse la prima volta. C’erano dei Magi – non “maghi”, proprio “magi” – dei sapienti che dall’oriente erano venuti a cercare il bambino appena nato, il Re dei re, indicato da una cometa apparsa nella notte. E questo lo rappresentavamo anche nel presepe, con Magi e cammelli che facevamo avanzare passo dopo passo verso la grotta di Betlemme. Camminando, camminando avevano trovato alloggio in una casa dove abitava una vecchia, alla quale avevano manifestato il motivo del loro viaggio: la ricerca del Re dei re. Ma non le avevano detto nulla della stella. Allora la vecchina pensò di andare a cercare anche lei il Re dei re appena nato per portargli il suo dono. Si caricò in spalla un sacco di regali ma, non avendo alcuna idea di dove potesse essere quel bambino-re, si mise a girare di casa in casa, lasciando cadere un regalo in ogni camino fumante. E così i doni per il Re dei re diventarono doni per ogni bambino presente in una casa. La ricerca di quella vecchina non finisce mai e la Befana (quello era diventato il suo nome) ogni anno cerca il Re dei re e, non trovandolo, si accontenta di portare doni ai bambini più poveri, come se li donasse al Re dei re. Anche noi allora attendevamo che venisse, re o non re.
Ma una vigilia dell’Epifania, dopo aver appeso la mia brava calza al camino, invece di andare a fare i compiti dal vicino, ero rimasto in casa. Sentendo salire qualcuno per le scale, andai a vedere chi stesse arrivando e trovai mia madre con in mano un sacchetto di fichi secchi e una tavoletta di cioccolato… Appena mi vide, lasciò cadere per terra i pacchetti e mi venne incontro cercando di non farmeli vedere, ma ormai avevo capito. «La Befana non era vera!», dissi in cuor mio, e fui colto da grande tristezza. Mia madre, che era già malata, se ne accorse subito, mi strinse al petto, mi baciò sussurrandomi: «Ora sei grande. E’ ora che tu sappia che i regali te li facciamo io e papà perché ti vogliamo bene».
Fu per me un cambiamento di attesa, di desiderio, di fiducia. Quella delusione fu l’inizio di un cammino di apprendimento: occorre sì desiderare, ma solo ciò che è possibile, e attenderlo da chi può farci il dono. Non dalla Befana, non dal cielo, al limite nemmeno da Dio occorre aspettare quello che possiamo attendere dalla terra, dalle persone che incontriamo, che ci amano e che amiamo. E a nostra volta dobbiamo sapere che solo noi siamo il dono che le persone che amiamo hanno il diritto di attendersi.
La “perdita” della Befana fu per me la scoperta di un tesoro, l’allenamento a lasciar cadere tante fiducie incerte che costellavano il mio cielo di bambino e a prendere piena consapevolezza dell’amore di mia madre che di lì a pochi mesi mi avrebbe lasciato. La fine di quella favola al cuore dell’inverno mi ha insegnato che nella vita bisogna attendere dalla terra ciò che la terra ci può dare, e ad attendere dal cielo, da Dio, solo ciò che Dio ci può donare, il suo amore fino alla fine. E quei regalini caduti per le scale mi avevano fatto capire che mia madre mi aveva già fatto il suo dono più grande: la mia vita e la sua vita.

Biografia

Enzo Bianchi nasce a Castel Boglione, in provincia di Asti, il 3 marzo 1943. Dopo gli studi alla facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Torino, nel 1965 si reca a Bose, una frazione abbandonata del comune di Magnano sulla Serra di Ivrea, con l’intenzione di dare inizio a una comunità monastica. Raggiunto nel 1968 dai primi fratelli e sorelle, scrive la regola della comunità. È tuttora priore della comunità, che conta un’ottantina di membri tra fratelli e sorelle di sei diverse nazionalità ed è presente, oltre che a Bose, anche a Gerusalemme (Israele), Ostuni (Brindisi), Assisi e San Gimignano.
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.
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