Guida alla lettura
Parole di conforto che oggi possiamo sentire un poco artificiose, certamente influenzate dalla cultura del tempo: allora, ogni lettura del mondo e della vita – fosse poetica, culturale, politica, filosofica – era attraversata dalla prospettiva religiosa; e una consolazione durevole, non effimera, non poteva trarre linfa che dalla fede cristiana. Ma il genio di Petrarca si esprime nella limpidezza dello stile che vivifica il concetto, e lo alimenta di sentimento: nella prima quartina, attraverso immagini di straordinaria efficacia pittorica e acustica; nell’ultima terzina, con una potenza plastica e di sintesi sconosciuta alla lingua moderna.
Alcuni esempi (lasciando ai nostri lettori il piacere di trovarne altri): nel terzo verso, l’allitterazione della vocale “o” (roco mormorar) rende splendidamente il suono quieto di acque che scorrano senza fretta; subito dopo, “lucide” crea al contrario un effetto quasi di abbaglio, come fanno i raggi del sole quando si riflettono sul moto irregolare dell’onda. Nel dodicesimo verso, l’invito “Di me non pianger tu” è dolce e musicalissimo, crea un’intimità profonda fra Laura e il poeta: eppure, la giustapposizione così netta dei pronomi (di me... tu) ci riporta bruscamente alla coscienza della distanza incolmabile che ormai li separa.
Dedichiamo questa lirica immortale a chi piange la morte della persona amata, perché anche nella bellezza che ci giunge dal passato possiamo a volte trovare consolazione e trasfigurazione al nostro dolore.
(Versione originale)
Se lamentar augelli, o verdi fronde
mover soavemente a l’aura estiva,
o roco mormorar di lucide onde
s’ode d’una fiorita e fresca riva,
là ’v’io seggia d’amor pensoso, e scriva,
lei, che ’l ciel ne mostrò, terra n’asconde,
veggio et odo, et intendo ch’ancor viva,
di sì lontano a’ sospir miei risponde.
«Deh, perché inanzi ’l tempo ti consume?»
mi dice con pietate. «A che pur versi
de gli occhi tristi un doloroso fiume?
Di me non pianger tu; ché ’miei dì fersi,
morendo, eterni, e ne l’interno lume,
quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi».
(Versione in lingua corrente – A cura della nostra redazione)
Se, ove io segga immerso
in pensieri d’amore, e d’amore scriva,
s’odono gli uccelli gemere,
o verdi fronde muoversi soavemente
alla brezza estiva,
o il roco mormorìo delle scintillanti onde
di una fiorita e fresca riva,
lei, che il cielo ci mostrò, e la terra ora nasconde,
vedo e odo, e avverto che, come ancor viva,
da così lontano risponde ai sospiri miei:
«Perché ti consumi anzitempo?»
mi dice pietosa. «Perché versi
dai tristi occhi un doloroso fiume di lacrime?
Non pianger di me; perché i miei giorni,
morendo, si fecero eterni;
e quando sembrai chiuderli,
nella luce che abitava il profondo del mio cuore,
gli occhi apersi».
Biografia
Malgrado le precoci inclinazioni letterarie, il padre avvia Francesco agli studi giuridici, prima a Montpellier e poi a Bologna. Nel 1326 il padre muore e il giovane, rientrato in Provenza per riprendere gli amati studi classici, incontra Laura e se ne innamora.
Verso il 1330, Petrarca entra al servizio del cardinale Giovanni Colonna. Appoggiato dall’illustre famiglia romana, compie numerosi viaggi in Europa, durante i quali approfondisce la propria formazione culturale classica e patristica, scoprendo e ricopiando codici antichi.
Nel 1337, tornato in Provenza, si ritira a Valchiusa (oggi Fontaine-de-Vaucluse), ove dimorerà, pur con numerose e lunghe interruzioni, sino al 1353, componendovi molte delle sue opere, in italiano e in latino. Nel 1340, il Senato di Roma lo cinge in Campidoglio della corona poetica. Fra il 1342 e il 1347 riprende i viaggi in Francia e in Italia, continuando a scrivere ma ricoprendo anche numerosi incarichi politici. Il 19 maggio del 1348 apprende a Parma della morte prematura di Laura, uccisa dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.
Nel 1953 rientra definitivamente in Italia, presso la corte milanese dei Visconti, per i quali sarà ambasciatore a Venezia, Praga e Parigi. Questa intensa attività non gli impedisce però di godere di lunghi periodi di tranquillità, in città e nella campagna circostante, per attendere a nuovi lavori letterari.
Nel 1362, scoppiata nuovamente la peste, lascia Milano e si reca prima a Venezia, poi a Padova: ospite di Francesco da Carrara, signore della città, dimora spesso anche ad Arquà, sui colli Euganei, in una villetta che egli stesso descriverà come “piccola e graziosa, circondata da un uliveto e da una vigna”. E proprio ad Arquà muore improvvisamente nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374: si narrerà che sia stato trovato sereno, con il capo chino su un volume di Virgilio, il poeta più amato.
Il “Canzoniere”, la sua opera più famosa, è una raccolta di 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali, selezionati da Petrarca stesso fra la sua vastissima produzione. La maggior parte delle composizioni è dedicata all’amore per Laura, e riflette una tensione straordinaria dal punto di vista umano, poetico e culturale: da un lato, infatti, la donna è cantata e vagheggiata con forti accenti sensuali, ispirati alla lirica italiana e provenzale dei secoli XII e XIII; dall’altro, specialmente dopo la morte della giovane, prevale di lei la visione stilnovistica e poi dantesca della “donna-angelo”, ricolma di ogni virtù, e per tanto fonte di conforto e tramite verso Dio.