Guida alla lettura
Partendo dalle sue stesse paure di donna che si avvicina alla vecchiaia, e che un giorno potrebbe andare incontro allo stesso destino, Marie de Hennezel cerca di costruire un mosaico di “sensi” che possano rendere meno insopportabile il decorso tuttora incurabile della malattia: centri specializzati di qualità, in cui le équipe siano animate da «una riflessione costante su come rispettare la dignità degli ospiti e restare in ascolto delle famiglie», e capaci di «vedere “ciò che ancora funziona” in queste persone che sprofondano progressivamente nella notte»; l’idea che anche la persona colpita dalla demenza abbia qualcosa da dare a coloro che le stanno intorno, seppure in modi molto diversi da quelli “normali”; figli e familiari capaci di parlare, in un «linguaggio fatto di verità», della malattia, del declino e persino della morte; medici disponibili a rispettare il desiderio del malato di non continuare a vivere al di là di un certo stadio. «Se si avverassero tutte queste condizioni – conclude – la prospettiva di terminare la mia vita colpita dal morbo di Alzheimer sarebbe, credo, meno dolorosa».
Marie de Hennezel, in sostanza, cerca di realizzare con delicatezza e umiltà quanto Italo Calvino suggerisce in una pagina immortale delle “Città invisibili”: riconoscere «chi e che cosa, nell’inferno, non è inferno, e dargli spazio, e farlo durare». Lo fa senza ostentare certezze, e soppesando con cura le tante ipotesi, non sempre suffragate dall’evidenza scientifica, sviluppatesi negli anni intorno alla genesi di una malattia che «resta un mistero»: ma in un campo brumoso come questo, anche l’esperienza individuale, pur non standardizzabile in un protocollo clinico, ma condivisa con generosità e rispetto, può ispirare strategie utili ad attraversare il dolore.
Auspichiamo che, stimolati da questa lettura e attraverso la rubrica di testimonianze [LINK] presente sul nostro sito, le persone colpite dall’Alzheimer, ma ancora in grado di parlare di sé, e i loro familiari vogliano condividere la loro esperienza e la loro ricerca di un senso laddove tutto – identità personale, intelligenza, affetti – sembra inghiottito nell’abisso dell’oblio.
La filosofia della residenza è profondamente umanista. Le équipe sono animate da una riflessione costante su come rispettare la dignità degli ospiti e restare in ascolto delle famiglie. Perché sono queste a soffrire di più. Ho assistito a una delle discussioni di gruppo in cui i parenti vengono a esprimere difficoltà e sentimenti, particolarmente dolorosi quando il loro caro entra nella fase finale della malattia, una fase che dura a volte molto a lungo. I lettori che hanno vissuto questa situazione sanno cosa si prova durante le visite a un famigliare che non vi riconosce nemmeno più. Diventa tutto irreale. E quando la situazione si prolunga, ci si fa mille domande. Che senso ha? Perché mantenere in vita una persona con cui non è più possibile comunicare? Alcune famiglie sono schiacciate dal peso di questa responsabilità. Diventano aggressive. Ci si trova a confrontarsi con problemi etici di particolare gravità... Da quando è stata votata la legge «Diritti dei malati e fine della vita», che stabilisce il diritto di rispettare il rifiuto di trattamenti e condanna un accanimento terapeutico irragionevole, alcune decisioni appaiono difficili da prendere: dobbiamo dare l'antibiotico a un anziano arrivato allo stadio tre della malattia, quando ha una polmonite? Dobbiamo nutrire con sonda gastrica una persona che si rifiuta di accettare il cibo?
La scelta se limitare o sospendere i trattamenti ci costringe, sempre, a chiederci se stiamo facendo la cosa giusta. Le famiglie, così come il personale curante, hanno un atteggiamento ambivalente. La situazione mette in luce anche i dissensi, le disarmonie passate: i figli che hanno avuto una buona relazione con il genitore ne accettano più facilmente il declino e la fine; non è così, invece, per coloro che hanno avuto una relazione tormentata.
Recenti disposizioni legislative obbligano le équipe a una riflessione nuova su quello che ormai si definisce il «lasciar morire». Una posizione per nulla scontata per il personale ospedaliero se, come spesso accade, verso il degente si è sviluppato un attaccamento affettivo.
Incontro la moglie di un paziente giunto all'ultimo stadio dell'Alzheimer. Con molto pudore, mi racconta l'evoluzione della malattia di suo marito. Il silenzio straziante con cui ha accolto la diagnosi, poi gli sbalzi d'umore e l'aggressività che rivelavano il suo malessere. Pur essendo molto vicini tra loro, lui non le ha mai parlato del suo tormento. Quando lo psichiatra che lo seguiva ha spiegato che bisognava prendere in considerazione il trasferimento in una struttura specializzata, ha chiuso gli occhi e non li ha più riaperti fino a che non se n'è andato. Da allora, sembra essersi murato vivo. «Non ha mai chiesto di rivedere casa». Per lei la separazione è stata durissima. Non si erano mai lasciati. All'inizio andava e veniva tutti i giorni, ascoltavano musica insieme, lo portava a passeggio. Poi una tendinite l'ha obbligata a diradare le sue visite. Adesso pensa che lui non la riconosca più, anche se la sua sensibilità è sempre viva come prima. A volte ha le lacrime agli occhi quando ascolta la musica. Lei continua a venire per fedeltà. La rassicura il fatto che, fin dal suo arrivo a Villa Épidaure, lui si sia fiduciosamente lasciato curare. Migliaia di persone soffrono, come questa donna, assistendo impotenti al declino di una persona amata. Eppure la accompagnano fino alla fine.
Tra le paure che evocavo, all'inizio del libro, la più diffusa è proprio quella di terminare la nostra vita nella demenza e di imporre agli altri il peso della malattia. Ognuno di noi desidera ovviamente che questo destino gli sia risparmiato. Ho riflettuto, tuttavia, in prima persona, su cosa potrebbe aiutarmi ad accettarlo, se io stessa o uno dei miei cari fossimo colpiti un giorno dal morbo. Essere a conoscenza dell'esistenza di strutture come quella che ho appena descritto è qualcosa che mi fa sentire meglio.
Il documentario di Laurence Serfaty, Alzheimer jusqu’au bout de la vie, girato in Québec, mostra la vita quotidiana in un luogo sperimentale, sotto questo aspetto, la casa “Carpe Diem”. Ed ecco delle immagini che riescono a cambiare il nostro sguardo cosi pessimista. Il personale curante cerca di vedere «ciò che ancora funziona» in queste persone che sprofondano progressivamente nella notte. Si sente che amano i loro pazienti e che rifiutano qualunque procedura standardizzata scegliendo di adattarsi invece a ogni singolo ospite. Guardando il film, si matura la convinzione che è possibile terminare la propria vita conservando dignità e integrità, anche se si è colpiti da questa malattia che cosi tanto ci spaventa. E si capisce che è possibile comunicare con un individuo affetto da demenza, se si mantiene un legame con lui. Bisogna, ovviamente, essere certi che ne valga la pena, dato che il malato rimane pur sempre «una persona, e non il resto di un uomo decaduto e definitivamente irraggiungibile»...
Queste testimonianze placano la mia paura di dover portare un giorno uno dei miei cari in un'istituzione di quel tipo. Come esprime bene Christian Bobin:
«Il morbo di Alzheimer toglie quel che l’educazione ha messo nella persona, e fa risalire in superficie il cuore. È attraverso gli occhi che i malati parlano, e quello che vi leggo mi illumina più dei libri [...]. Mi porto via dalla casa di riposo un bisogno di toccare, anche solo furtivamente, la spalla di coloro che incontro e una diffidenza accresciuta verso i bei discorsi».
Non è forse vero che anche i più vulnerabili tra i nostri anziani hanno qualcosa da trasmetterci? Se così è, dobbiamo cercare di lottare contro il pensiero dominante secondo cui le persone dementi non hanno nulla da offrire e la loro vita, in queste condizioni, non è più tale.
L’idea che, anche se fossi colpita dalla demenza, avrei comunque qualcosa da dare a coloro che mi stanno intorno è un altra presa di coscienza che mi aiuta a considerare le ipotesi peggiori.
Ho ricevuto di recente la testimonianza di una donna della mia età che dice di aver trovato un senso nella malattia della madre. Essa viene a riempire, mi scrive, una mancanza molto antica: «Ho infine la possibilità di coccolare mia madre, di abbracciarla e di dimostrarle il mio affetto. Mi permette di esprimerle quello che non ho mai potuto fare, perché, prima che si ammalasse, era fredda e mi allontanava sempre.»
Il morbo di Alzheimer resta un mistero. Esistono diverse teorie circa le possibili cause ambientali. La solitudine, per esempio, dato che uno studio americano ha provato che una persona anziana lasciata da sola ha il doppio delle probabilità di svilupparlo. Le associazioni delle famiglie di malati di Alzheimer percepiscono questa ipotesi come un attacco nel loro confronti. Preferiscono l'idea della biogenesi, che non solleva questioni di responsabilità. lo credo che si debba evitare di essere manichei. Si tratta certamente di una malattia multifattoriale e sulle cui cause psicologiche o situazionali circolano diverse teorie, sebbene più confidenziali.
Lo psichiatra Jean Maisondieu non esita a ipotizzare che il morbo possa essere «un grido. un rifiuto una sorta di suicidio sociale e intellettuale». Perché la persona ha deciso di essere morta prima di morire? Di ritirarsi dalla scena? Per non essere testimone del proprio invecchiamento, della propria morte, suggerisce.
Aude Zeller, psicoterapeuta, ha pubblicato un libro sui sei anni del declino di sua madre Denyse. E’ raro che qualcuno scriva della degenerazione fisica e mentale delle persone affette dal morbo di Alzheimer. E’ un argomento tabù. Ma lo sguardo che Aude Zeller posa su questa realtà dolorosa è così innovativo e profondo che merita di essere ricordato. La demenza senile non è soltanto, secondo lei, la semplice distruzione delle capacità mentali e psichiche di un individuo. Quella che appare all'esterno come regressione potrebbe essere anche l'occasione di una lenta e ultima trasformazione.
Ecco una tesi originale, una tesi che potrebbe rivelarsi di grande aiuto. Quando la degenerazione fa regredire l'anziano a uno stato di dipendenza simile a quello di un bimbo piccolo, questo gli permette di ripristinare un’organizzazione mentale in cui la paura della morte non esisteva ancora. Si tratta dunque di un modo di prepararsi. Comprendere questo può permettere alle persone circostanti di accompagnare una regressione che è potenzialmente dotata di significato e quindi sottratta all'assurdo.
Seguiamo, dunque, il racconto della vertiginosa caduta nella demenza, di ciò che Denyse definisce come la sua «depredazione», descrivendo con questo termine il sentimento di perdita progressiva e implacabile di tutto ciò che aveva contribuito alla sua identità di donna. Perdita della vista, dell'udito, della parola, ma anche della mobilità delle mani e dunque dell'autonomia. «Quando non si è più in grado di prendere un bicchiere per bere, né una forchetta per mangiare, né di grattarsi il naso per il piacere di farlo, il rapporto con il proprio corpo si inabissa nel pantano viscoso della dipendenza totale.» Perdita del proprio potere sugli altri, perdita di qualunque controllo su di sé e l'affiorare involontario di discorsi aggressivi, talvolta sboccati, il più delle volte deliranti. Ritorno del rimosso, così Aude Zeller battezza questi straripamenti, in cui le è ben difficile riconoscere sua madre.
Cerca tuttavia di comprendere ciò che accade. Sua madre non si è sentita libera di dare spazio ai propri desideri segreti. C'è tutta una libertà sessuale che lei ha insabbiato nel corso degli anni e che tenta ora di affrancare dai vecchi impacci morali. «I suoi accessi di delirio tendevano a tornare sul vasto tema dei soprusi compiuti alla sua sensibilità di donna. Avevano dunque un senso, nonostante i loro effetti dolorosi. Ed era bene non contrastarli, ma piuttosto mettersi in ascolto».
Malgrado le apparenze, ci dice Aude, la persona demente ha una certa, vaga, consapevolezza della distorsione che opera sulla realtà. Sarebbe un torto grave e una mancanza di rispetto comportarsi come se non fosse così. Le divagazioni non sono altro che «un tentativo disperato verso l’ampio, il vasto, il largo», da cui la persona affetta da demenza si sente esclusa a causa dei limiti imposti dalla vecchiaia.
Finiamo per scoprire che, anche quando si è perso quasi tutto, resta l'essenziale: «Un anno e mezzo prima della sua morte, dopo che le avevo appena letto un salmo dalla sua Bibbia e mentre invocavamo insieme la benedizione di Dio conformemente alle sue vecchie abitudini e alla sua vita spirituale, alzando i suoi occhi pieni di altrove mi rispose, con mio grande stupore: “Questo non me lo hanno ancora portato via”».
Molti dei miei colleghi psicoterapeuti sostengono l'ipotesi che il morbo di Alzheimer sia un modo progressivo di assentarsi dalla vita, per non dover affrontare l'avvicinarsi inesorabile della morte.
C'è una storia che sembra rafforzare questa teoria. L’uomo che me l’ha raccontata ha più o meno sessant'anni, vive in Madagascar e ogni sei mesi viene in Francia a trovare i suoi figli e soprattutto il vecchio padre, ricoverato in un istituto per persone affette da Alzheimer. Suo padre è arrivato all'ultimo stadio della malattia, non lo riconosce più. Il figlio, stremato, appena prima di Natale, gli ha chiesto: «Papà, perché sei ancora qui? Cosa fai ancora in questa vita?». Fare questa domanda gli è costato molto; l'argomento della morte rimane un tabù. Il padre a quel punto lo ha guardato dritto negli occhi e gli ha risposto: «Non è facile fare il passo!». A domanda chiara, risposta chiara.
Ho sempre pensato che se i parenti di persone affette da demenza senile parlassero con loro in modo sincero, otterrebbero risposte che dimostrano come la coscienza non sia del tutto spenta...
Per quanto mi riguarda, ho chiarito la mia volontà ai miei figli: se mi dovesse accadere di sprofondare nella demenza, non voglio continuare a vivere oltre lo stadio in cui non li riconoscerò più. Ho chiesto loro di parlarmi sinceramente, rivolgendosi a me come se fossi nel pieno possesso delle mie facoltà, come ha fatto il mio amico del Madagascar. Perché sono intimamente convinta che probabilmente “qualcosa” in me, qualcosa di sepolto nell'inconscio, sentirà comunque quello che mi diranno. Mi rassicura il fatto che la legge «Diritti dei malati e fine della vita» rafforzi il mio diritto a rifiutare trattamenti che mi costringerebbero a vivere e che mi tuteli affinché i medici tengano conto delle mie volontà anticipate.
Se si avverassero tutte queste condizioni – un istituto umano, figli che mi parlano in un linguaggio fatto di verità, medici che rispettano il mio desiderio di non continuare a vivere al di là di un certo stadio – la prospettiva di terminare la mia vita colpita dal morbo di Alzheimer sarebbe, credo, meno dolorosa. A maggior ragione se, come mi sembra di intuire, il processo di realizzazione di sé continua nonostante tutto, nelle profondità del nostro essere.
Biografia
Fondata oltre cinquant’anni fa da un medico olandese, Franz Veldman, e ancora poco nota in Italia, l’aptonomia insegna a mettersi in relazione con gli altri esseri umani attraverso il tatto. Questa tecnica fu a lungo applicata nel rapporto fra genitori e figli dal concepimento alla nascita, e nel periodo del puerperio. Da alcuni anni è utilizzata anche con i morenti, per rispondere ai loro bisogni emotivi e affettivi.
Spiega la stessa de Hennezel nel libro “La morte amica”: «Forse può sembrare ridicolo seguire un corso di formazione per sviluppare una facoltà del genere. Purtroppo, il mondo nel quale siamo tutti cresciuti e continuiamo a muoverci non favorisce il contatto affettivo spontaneo tra esseri umani. Certo, tocchiamo gli altri, ma con un’intenzione erotica. Oppure in un contesto oggettivo, come nell’universo medico, dove si maneggiano “corpi-oggetto”. Ci si dimentica di quello che può sentire la “persona”. E’ quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione dell’approccio umano che comprenda l’incontro tattile... Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? Sappiamo in quale misura la qualità di una presenza e il grado di attenzione possano cambiare il modo in cui qualsiasi intervento medico, anche il più aggressivo, viene recepito dai malati... In un reparto di cure palliative, il senso del contatto è uno dei valori positivi della terapia... L’approccio tattile permette ai malati di sentirsi integri e pienamente vivi. Come se si avvolgesse la pelle dolorante di un corpo moribondo con una seconda pelle, più delicata... Una pelle psichica, una pelle dell’anima».
Nonostante il suo quotidiano impegno al fianco di chi affronta la morte, Marie rifugge da ogni idealismo compiaciuto e non ha timore di parlare con grande onestà etica e intellettuale di quello che chiama il suo “assillo segreto”: la sofferenza ha un senso?
Nel 2008 ha pubblicato “Il calore del cuore impedisce al corpo di invecchiare”, da cui è tratto il brano che proponiamo, e “Prendersi cura degli altri. Pazienti, medici, infermieri e la sfida della malattia”, editi entrambi da Rizzoli.
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