Il libro racconta le storie di cinque uomini e tre donne. Come Massimiliano, che ha trascorso dieci anni della sua esistenza in coma. O come Giulia, che non doveva neppure nascere, affetta da una grave malformazione cerebrale, e oggi gareggia sugli sci per disabili. Sottolinea Cavallari: «Oggi Giulia ha sette anni, vive, vuole vivere, insegna la vita». Conferma e aggiunge il papà Riccardo: «Nostra figlia ci interroga ogni giorno sul significato della felicità. Giulia, pur essendo limitata, sprizza vita. Mi basta il suo sguardo per capire che è viva e soprattutto che vuole vivere, a dispetto di coloro che l’avevano considerata un vegetale». E poi ancora Bruno, Claudio, Egle, Giovanni, Oscar: malattie rare, patologie sconosciute, famiglie smarrite.
Il libro parte subito forte, con una domanda secca, che c’interroga senza compromessi: «Vale la pena vivere così? È dignitoso?». La risposta migliore è nella storia di Daniela, che abbiamo scelto per la lucida capacità di raccontare il volto della malattia, e la determinazione nel volersi battere con la sofferenza come in un duello d’altri tempi, all’ultima stoccata.
È una bellissima giornata di fine agosto, Daniela è in ospedale per partorire la seconda volta. La famiglia è riunita: ci sono il marito Luigi e il figlio Leonardo, 10 anni. La sera del 27 agosto 2005 nasce Camilla. Il parto è regolare, nessuna complicazione, la bambina è bellissima, sana. Luigi è a casa da poche ore. Poco dopo la mezzanotte squilla il telefono: è Daniela, piange spaventata, ha forti dolori alla testa e nausea, il marito si precipita in ospedale, fa appena in tempo ad abbracciarla. Daniela perde coscienza, i muscoli s’irrigidiscono, il viso si tende in una smorfia. Il marito viene fatto uscire dalla camera, i medici sono agitatissimi, la moglie entra in coma: emorragia celebrale. Trasferimento all’ospedale di Cuneo, speranze di sopravvivere minime.
A Luigi sembra d’impazzire: come è possibile? Perché nessuno si è accorto che c’erano anomalie? Che cosa è successo? È stato il parto? Domande prive di risposte, anche perché non ci sono spiegazioni, è solo la crudele realtà. L’emorragia ha colpito il tronco encefalico, interrompendo il contatto tra il cervello e il resto del corpo. Vita e morte si sovrappongono, gettando il marito nello sgomento più totale. I medici spiegano che Daniela ha avuto questa emorragia a causa di un difetto congenito, il parto non centra nulla, sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro momento. Ma poteva anche non capitare.
Daniela riesce a superare la notte e il mattino seguente è operata per rimuovere i danni dovuti all’emorragia. Anche dopo l’intervento, otto ore, rimane in stato comatoso, e dopo 40 giorni di terapia intensiva, in cui nulla cambia, viene trasferita in una struttura specializzata. Luigi s’informa e decide di portare sua moglie in un centro riabilitativo in Emilia Romagna, ma anche qui nessun cambiamento vitale. Daniela sembra sempre assente.
Nel frattempo Luigi si documenta, studia casi in cui pazienti, creduti in stato vegetativo perché il fisico non rispondeva agli stimoli, in realtà erano “presenti” e riuscivano a comunicare attraverso il battito delle palpebre. Sull’onda della scoperta, Luigi crea un rudimentale alfabeto, e siccome Daniela ha gli occhi aperti – uno compromesso dall’emorragia, l’altro vagamente sano – le chiede di segnalargli le lettere che compongono le parole della frase che vuole dirgli, segnalandola con il battito della palpebra: per chi ha letto il “Conte di Montecristo”, di Alexander Dumas, è lo stesso metodo che la giovane Valentine, figlia del conte di Morcerf, usa per far parlare l’adorato nonno Nortier, inchiodato dalla malattia su una carrozzina. E incredibilmente Luigi scopre che Daniela, sebbene con fatica, grazie al battito delle palpebre corrispondenti alle lettere dell’alfabeto, riesce a comporre una frase: «Perché ho sempre sonno?». Ma allora Daniela è viva, sente, capisce!
Luigi sconvolto dalla scoperta, si domanda da quanto tempo sua moglie sia vigile, e con questa novità, corre dai medici, i quali però non gli credono. Anzi, interpretano l’accaduto come un errore di comprensione del marito, incapace – a loro avviso – di accettare la realtà. Ma Luigi non si arrende: il caso di sua moglie gli sembra uguale a quello di Jean-Dominique Bauby, giornalista della rivista francese “Elle”, che in seguito a un ictus, dopo 20 giorni di coma, si risveglia con un corpo completamente immobile, a parte la palpebra dell’occhio sinistro, con la quale è riuscito a dettare il libro nel quale racconta la sua storia. Questo libro ha gettato l’attenzione su una malattia poco conosciuta: la “Locked-in Syndrome”, “sindrome del chiavistello”. Si tratta di una patologia neuromuscolare che lede un particolare punto del cervello, dove passano le vie nervose che controllano i movimenti. Le persone colpite si ritrovano paralizzati gli arti, i muscoli della bocca e della lingua, non riescono a parlare e neanche a deglutire, non riescono a muovere nulla al di sotto degli occhi, ma sono completamente lucidi e coscienti, percepiscono perfettamente sensazioni tattili e di dolore. Insomma, sono imprigionati nel loro corpo.
In breve, nonostante le solite, infinite e incomprensibili difficoltà burocratiche Luigi riesce finalmente a spostare Daniela in un centro riabilitativo migliore e poi, alla fine del 2006, a riportarla nella loro casa di Bra, in provincia di Cuneo. Qui Daniela ritrova il suo ambiente, più rassicurante e sereno. È circondata da volontari e soprattutto amici che l’aiutano a comunicare sempre con lo stesso sistema del battito delle palpebre. E riesce a esprimere le sue riflessioni e la sua amarezza: «Tornata a casa mi sono resa conto di quanto la mia idea di assistenza domiciliare sia distante dalla realtà. Oltre al dolore fisico e psicologico, devo subire l’umiliazione di sentirmi a carico dei miei famigliari, che devono combattere con mille difficoltà per potersi occupare di me. Una persona come me è solo un peso, non esiste più, non lavora, non produce, è solo un costo. Vorrei far capire a chi si dovrebbe occupare di malati come me, l’angoscia, la disperazione, l’umiliazione, il dolore e la tristezza che quotidianamente dobbiamo subire. Vorrei tanto tornare la Daniela che ero, vorrei essere una madre vera, non una madre virtuale, ma sfortunatamente non è più possibile. Rispetto agli altri malati, sono fortunata ad avere persone meravigliose che mi assistono, e sostengono la mia famiglia, ma sono loro a non avere avuto quanto di diritto gli spetterebbe».
Luigi e Daniela si battono ancora oggi per portare all’attenzione nazionale, e non solo, l’importanza dell’assistenza domiciliare per questa malattia, e per farla conoscere. Si stima che circa 600 persone in Italia siano colpite dalla “sindrome del chiavistello”, ma che solo poche siano riconosciute come tali, e che quindi molti pazienti in stato di totale coscienza siano scambiati per malati in stato vegetativo. Nel 2007 è nata l’Associazione “Gli amici di Daniela - Onlus” in collaborazione con l’Alis, la fondazione per Jean-Dominique Bauby, alla quale collaborano volontari e specialisti di tutto il mondo. Uno studio francese ha elaborato un alfabeto adatto alla sindrome. E a seguito di questo studio anche l’Italia ne ha elaborato uno suo, l’Eiaon. Scopo dell’Associazione è sostenere le famiglie e i pazienti in coma o stato vegetativo.
Non tutto però va per il meglio. La causa, ancora una volta, sono gli impicci burocratici. Come sottolinea Fabio Cavallari, «Daniela, come ogni ammalato particolare, ha bisogno di fisioterapisti, logopedisti, psicologi, cure costanti e mirate». E, incredibilmente, queste cure le sono state tolte. Il 3 giugno 2008, grazie ad alcuni amici che curano il sito dell’Associazione, la moglie di Luigi ha espresso tutta la propria indignazione: «Oggi ho voglia di parlare di me per tutti quelli che non possono farlo: si dice “mens sana in corpore sano”, ma dal primo aprile mi hanno tolto la fisioterapia e la logopedia, in un Paese che si definisce civile. Solo i servizi sociali mi mandano gli operatori sociosanitari. L’assistenza domiciliare integrata mi garantisce solamente un dottore e un’infermiera, cosa importante, ma il resto è delegato alla famiglia e così mio marito, dopo una giornata di lavoro, deve arrangiarsi. Io mi sento molto umiliata perché fino al giorno che sono stata bene ho cercato di lavorare con passione».
Ecco: è questo, secondo noi, il merito di “Vivi. Storie di uomini e donne più forti della malattia”. Oltre a raccontare la sofferenza nel suo svolgersi quotidiano, getta uno sguardo sulle speranze di chi ha combattuto e vinto (seppure in modo parziale) il disagio estremo e la paura, dando un’idea delle difficoltà che il dolore lascia sul campo e delle infinite trappole che un Welfare approssimativo nasconde sul terreno del riscatto e di un ritorno a una “vita degna di essere vissuta”, che è la provocazione con la quale si apre il libro. Chiude la testimonianza di Claudio, uno dei circa 6.000 malati di sclerosi laterale amiotrofica (Sla) del nostro Paese, malattia il cui dolore uccide lentamente il fisico, non la mente. Claudio vive in casa curato dalla moglie: «Stefania mi assiste in tutto. Lei mi ha permesso di superare le difficoltà piccole e grandi. Lei rappresenta ai miei occhi quello che la grave malattia non è riuscita a distruggere».