Guida alla lettura
«Oggi dobbiamo cercare di ricostituire una cultura dell’accompagnamento», avverte con forza Marie de Hennezel. Tenendo però presenti due condizioni ineludibili. Primo: apprendere questa cultura spetta certamente ai medici e a tutti coloro che si occupano dei malati, «affinché gli ospedali non si trasformino in camere mortuarie». Ma è soprattutto compito dei familiari e degli amici. Secondo: l’accompagnamento alla morte non si può improvvisare all’ultimo momento, è una prassi del cuore che «si radica nell’accompagnamento durante la vita». E’ velleitario attendersi dai familiari un atteggiamento di disponibilità, quando la vita ha aperto abissi di incomprensione e disamore mai colmati. «E tuttavia capita che alcuni si riavvicinino, che l’amore trionfi sulla negligenza e l’indifferenza», conclude Marie consegnandoci una speranza e una responsabilità: «Tutto è possibile quando c’è ancora vita».
L’accompagnare permette di andare fino in fondo in una relazione. In questo senso esso pacifica e infonde la forza di continuare. Permette a chi sta per morire di rimanere vivo fino alla fine, di vivere i propri ultimi slanci, di trasmettere alle orecchie e al cuore di chi gli è vicino le parole che aiuteranno a vivere, le parole che gli permetteranno di partire in pace.
L’accompagnare è un impegno di non-abbandono. Dinanzi al terrore che l’approssimarsi della morte non manca di suscitare, un tale impegno ha un valore enorme. Quali che siano le convinzioni personali, la morte rimane un enigma, un incognita. A Yvan, come a chiunque altro, non è risparmiato il timore della morte. Sente perfettamente la vertigine che la morte imminente suscita. Si tratta di un terrore sacro, di un “tremendum sacrum”, dinanzi a cui non c’è altra possibilità per l’uomo che di abbandonarsi fiduciosamente, senza pretese di comprensione. L’amore, l’attenzione, la presenza fiduciosa di una persona cara aiutano a lasciarsi andare. Ecco la ragione per cui essere accompagnati è fondamentale, essenziale.
Dinanzi alla morte non vi è altro che la vertigine. È molto frequente che chi sta per morire sia assalito da paure molto concrete: come morirò? Come farà la mia anima a separarsi dal corpo? Morirò dopo un’interminabile agonia che sarà insopportabile per i miei cari? Queste paure sono naturali. Quasi tutte le persone vicine alla fine ne fanno esperienza. Bisogna parlarne serenamente.
Yvan ha voluto morire a casa, nell’intimità della sua stanza, nel suo ambiente familiare. Questo desiderio tuttavia si scontra con due paure: il timore di morire per soffocamento e quello di imporre agli altri un compito intollerabile. Yvan ha affrontato queste paure, chiedendo ai medici in che modo la morte sarebbe sopraggiunta. Rassicurato sul fatto che non sarebbe morto per soffocamento, ma probabilmente a causa di un arresto cardiaco, si è abbandonato con fiducia tra le braccia di Nadège, che si è impegnata a non farlo ricoverare in ospedale, ma ad accudirlo a casa.
«Ti ho accompagnato con tutto il mio cuore», gli dirà alla fine, prima dell’ultimo respiro. Davvero lo ha accompagnato con tutto il cuore. Senza l’aiuto di un medico. Nonostante l’insistenza di Yvan che non voleva che fosse sola in quel momento. Ma lei sapeva di essere forte. Lo rassicurava dicendogli: «Ce la farò».
Questo modo cosi straordinario di accompagnarlo, fatto di disponibilità e di fiducia, turba e commuove Yvan. Lei lo aiuta ad affrontare i dolori lancinanti che negli ultimi mesi di vita non lo abbandonano mai. Spesso lui la ringrazia di essere così presente, così attenta. Senza dubbio perché sa che si tratta di una qualità rarissima.
Sappiamo che chi sta per morire si sente solo e abbandonato. Oggi dobbiamo cercare di ricostituire una cultura dell’accompagnamento, con lo scopo di lenire la sensazione di solitudine che ci assale alla fine della vita. Occorre che i medici e tutti coloro che si occupano di curare i malati vengano sensibilizzati all’ascolto e alla relazione con chi sta per morire. Questa è una misura da adottare urgentemente affinché gli ospedali non si trasformino in camere mortuarie. Tuttavia, accompagnare sino alla fine è dovere soprattutto dei parenti, delle famiglie, degli amici. Oggi, questi si sentono inadeguati a un compito del genere. Non posseggono più quei rituali che permetterebbero loro di spezzare l’isolamento dei malati terminali, di trovare un senso in quegli ultimi istanti di vita.
Ma l’assenza di riti basta a spiegare questa povertà dell’accompagnamento alla morte? Oppure è un segno della più generale povertà delle relazioni umane, della mancanza di consapevolezza nelle relazioni? L’accompagnamento alla morte non si può improvvisare nelle ultime settimane che precedono la fine. Si radica nell’accompagnamento durante la vita. Allo stesso modo è paradossale il far conto troppo sugli ultimi momenti di vita, quando da sempre l’abbiamo abbandonata alla solitudine. Si capisce facilmente quanto sia vano attendersi dalle famiglie un atteggiamento aperto all’accompagnamento quando la vita le ha divise, quando i conflitti hanno segnato il vivere insieme, quando si è rimasti reciprocamente indifferenti. Si esortano i familiari a restare vicini, a riconciliarsi. E spesso si fallisce. La solitudine, gli abissi che gli uomini aprono tra loro, sono spesso incolmabili. E tuttavia capita che alcuni si riavvicinino, che l’amore trionfi sulla negligenza e l’indifferenza. Tutto è possibile quando c’è ancora vita. Noi ne siamo stati testimoni.
Biografia
Fondata oltre cinquant’anni fa da un medico olandese, Franz Veldman, e ancora poco nota in Italia, l’aptonomia insegna a mettersi in relazione con gli altri esseri umani attraverso il tatto. Questa tecnica fu a lungo applicata nel rapporto fra genitori e figli dal concepimento alla nascita, e nel periodo del puerperio. Da alcuni anni è utilizzata anche con i morenti, per rispondere ai loro bisogni emotivi e affettivi.
Spiega la stessa de Hennezel nel libro “La morte amica” (Rizzoli, 2007): «Forse può sembrare ridicolo seguire un corso di formazione per sviluppare una facoltà del genere. Purtroppo, il mondo nel quale siamo tutti cresciuti e continuiamo a muoverci non favorisce il contatto affettivo spontaneo tra esseri umani. Certo, tocchiamo gli altri, ma con un’intenzione erotica. Oppure in un contesto oggettivo, come nell’universo medico, dove si maneggiano “corpi-oggetto”. Ci si dimentica di quello che può sentire la “persona”. E’ quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione dell’approccio umano che comprenda l’incontro tattile... Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? Sappiamo in quale misura la qualità di una presenza e il grado di attenzione possano cambiare il modo in cui qualsiasi intervento medico, anche il più aggressivo, viene recepito dai malati... In un reparto di cure palliative, il senso del contatto è uno dei valori positivi della terapia... L’approccio tattile permette ai malati di sentirsi integri e pienamente vivi. Come se si avvolgesse la pelle dolorante di un corpo moribondo con una seconda pelle, più delicata... Una pelle psichica, una pelle dell’anima».
Nonostante il suo quotidiano impegno al fianco di chi affronta la morte, Marie rifugge da ogni idealismo compiaciuto e non ha timore di parlare con grande onestà etica e intellettuale di quello che chiama il suo “assillo segreto”: la sofferenza ha un senso?
Fra i libri pubblicati in Italia, oltre a “La morte amica” e “Morire a occhi aperti” (da cui è tratto il brano che proponiamo), ricordiamo “Il calore del cuore impedisce al corpo di invecchiare” e “Prendersi cura degli altri. Pazienti, medici, infermieri e la sfida della malattia”, editi entrambi da Rizzoli.