Guida alla lettura
Due donne emergono in particolare dal sobrio racconto, fra le tante persone che si occupano di quei “giovani condannati”: Jocelyne, suora, «disponibile alla sofferenza degli altri, buona e discreta», profondamente amata dagli ospiti del centro. E Lisa, incaricata dei pasti, che ama il suo lavoro, e ogni giorno prepara tanti piattini colorati, colmi di piccole golosità, «perché molti non possono più mangiare, ma continuano a venire a tavola per nutrire gli occhi e il cuore».
Avvolti dall’amore, quei giovani riescono a loro volta a «insegnare l’essenziale», a dare coraggio agli altri, a non avere più paura della morte. Perché, come sottolinea Marie de Hennezel all’inizio del suo libro, «è forse proprio la morte, quella che affronteremo un giorno, quella che colpisce i nostri cari o i nostri amici, che ci spinge a non accontentarci di rimanere alla superficie delle cose e delle persone... Senza sminuire il dolore di una strada fatta di lutti e di rinunce, il tempo che precede la morte può anche essere utile al compiersi di una persona, a una trasformazione di chi le sta accanto. Molte cose possono ancora essere vissute... E quando non si può più fare nulla, tuttavia si può ancora amare e sentirsi amati».
Dedichiamo questo brano a tutti coloro che si occupano con generosità e dedizione di cure palliative, nelle tante realtà che poco per volta nascono e crescono anche nel nostro Paese.
«La aspettavamo con gioia», mi dice. E io sono sensibile a quel suo modo di aprirmi le porte. La sua piccola auto si è fermata davanti a una villa familiare del tutto banale, circondata da un piccolo giardino. Siamo arrivate.
Il centro dispone di dieci stanze distribuite su due piani. Al pianterreno, una grande cucina attigua alla sala da pranzo, che è in pratica la stanza più frequentata. Saluto Lise, una giovane donna graziosa che è incaricata dei pasti. Sta preparando un dolce al cioccolato e si sente un odore delizioso. È evidente che quello che fa le piace. Il salone dà sul giardino. Saluto un ragazzone sprofondato in una poltrona, con una coperta sulle gambe. Sembra molto debole, ma ha sul volto quell’espressione calma e serena che mi commuove tanto nei giovani condannati. Un uomo più anziano, che potrebbe essere suo padre, gli sta parlando piano. Sono impressionata dalla tenerezza che emana dal loro colloquio... Jocelyne mi fa visitare la casa, presentandomi agli uni e agli altri. Incontrerò anche i residenti – è cosi che vengono chiamati i malati –, le famiglie, i volontari che si danno il cambio, regalando un po’ del loro tempo e della loro presenza.
La prima cosa che mi colpisce è l’atmosfera familiare. Qui non c’è alcuna traccia del mondo della medicina. Si finisce perfino per dimenticare la malattia. E’ un’impressione che si accentua ancor più al momento dei pasti. Uno dopo l’altro, i residenti scendono e si accomodano intorno al tavolo. Arriva un uomo che a stento riesce ancora a stare dritto sulla sedia a rotelle. Ma vuole venire a tavola. Sembra un giovane invecchiato. Tocca appena la purè che Lise gli ha messo nel piatto. Non importa, per lui conta essere lì, con gli altri. Con i suoi grandi occhi attenti segue la conversazione. Lise ha appena portato una zuppiera fumante. Un residente che è qui da quasi due anni ed è visibilmente il decano, mi fa osservare quanto quella zuppiera rappresenti per loro tutto ciò che amano in questa casa, la convivialità, l’atmosfera calorosa...
Noto anche che Lise ha tenuto conto dei gusti e delle preferenze di ognuno. Prepara ogni giorno un’infinità di piattini, decorandoli con cura, attenta a soddisfare gli occhi, perché molti non possono più mangiare, ma continuano a venire a tavola per nutrire soltanto gli occhi e il cuore. Si intrecciano con naturalezza discorsi, a volte seri, a volte leggeri, fra gli esseri umani che vivono qui i loro ultimi momenti. Capita che ci siano dei silenzi, che non sono pesanti, si sente semplicemente che sono necessari. Nessuno cerca di colmarli scioccamente. E’ un luogo dove si vive, si vive davvero.
Mi alzo da tavola commossa, attonita. Dopo cena, mentre sembra che tutti siano andati a dormire, chiacchiero con Lise, che sparecchia. Mi dice che questo è un luogo di miracoli quotidiani. I residenti si sostengono gli uni con gli altri, e lei riceve ogni giorno lezioni di vita e di solidarietà. E’ ancora molto commossa dalla morte di un certo Jean, avvenuta la settimana scorsa. Ha voglia di parlarmene. Ci sediamo al tavolo ormai deserto della sala da pranzo, con un caffè. Mi racconta: «Jean era un ballerino. E arrivato qui con un Kaposi gravissimo [1], che gli aveva invaso le gambe e tutto il basso ventre. Certo, riuscivamo a procurargli sollievo con la morfina, ma faceva uno sforzo enorme per venire a tavola. E una volta qui, ci raccontava delle storie, ci faceva ridere. Aveva una forza morale incredibile. Sono sicura di una cosa: ha dato coraggio agli altri. Diceva: “Andiamo, ragazzi, i nostri corpi se la battono, ma la nostra anima è libera”. Aveva tanta gioia di vivere.» Ascolto Lise, e penso a Patrick, a Louis, a tanti altri che ci insegnano l’essenziale.
«Poco prima di morire, Jean ha chiamato il suo amico. Gli ha chiesto di tenergli le mani e di ballare con lui. Voleva restare fino all’ultimo il ballerino che era. Jean si teneva leggermente sollevato, e con tutta l’anima faceva oscillare le braccia con l’aiuto del suo amico, che piangeva tutte le lacrime di cui era capace. “Balla, balla”, ripeteva il suo amico, mentre si dondolavano con le braccia allacciate. E poi Jean ha sorriso, un sorriso magnifico, sublime, prima di crollare sul cuscino. È spirato danzando...».
«Nella stanza c’erano alcuni residenti, anche loro prossimi ad andarsene. Hanno detto che la morte di Jean aveva cancellato ogni inquietudine su quello che sarà la loro stessa morte. Sanno che se saranno circondati da molto amore e da molta tenerezza, le cose andranno come devono andare, semplicemente, forse anche come loro stessi desiderano».
«Sono questi momenti straordinari che ci danno la forza di continuare a lavorare qui. Perché il compito è comunque difficile, molto difficile e logorante. Vederli declinare, indebolirsi e lasciarci. A volte vengono le vertigini, questa sfilata interminabile di giovani che deperiscono fino alla morte! Non si fermerà mai! Quando sono veramente allo stremo, quando dubito dell’utilità di quello che faccio, apro la scatola delle consolazioni, una scatola dove mettiamo le lettere delle famiglie che ci ringraziano di quello che abbiamo fatto, oppure scritti che fanno bene, al cuore, all’anima!».
Note
Biografia
Fondata oltre cinquant’anni fa da un medico olandese, Franz Veldman, e ancora poco nota in Italia, l’aptonomia insegna a mettersi in relazione con gli altri esseri umani attraverso il tatto. Questa tecnica fu a lungo applicata nel rapporto fra genitori e figli dal concepimento alla nascita, e nel periodo del puerperio. Da alcuni anni è utilizzata anche con i morenti, per rispondere ai loro bisogni emotivi e affettivi.
Spiega la stessa de Hennezel nel libro “La morte amica”: «Forse può sembrare ridicolo seguire un corso di formazione per sviluppare una facoltà del genere. Purtroppo, il mondo nel quale siamo tutti cresciuti e continuiamo a muoverci non favorisce il contatto affettivo spontaneo tra esseri umani. Certo, tocchiamo gli altri, ma con un’intenzione erotica. Oppure in un contesto oggettivo, come nell’universo medico, dove si maneggiano “corpi-oggetto”. Ci si dimentica di quello che può sentire la “persona”. E’ quindi importante sensibilizzare i professionisti della salute a una dimensione dell’approccio umano che comprenda l’incontro tattile... Si cura un piede, una gamba, un polmone, un seno, come un qualcosa di distinto, o si cura forse la persona che soffre in questo o quel punto del corpo ed esprime tale sofferenza con il suo modo personale di essere? Sappiamo in quale misura la qualità di una presenza e il grado di attenzione possano cambiare il modo in cui qualsiasi intervento medico, anche il più aggressivo, viene recepito dai malati... In un reparto di cure palliative, il senso del contatto è uno dei valori positivi della terapia... L’approccio tattile permette ai malati di sentirsi integri e pienamente vivi. Come se si avvolgesse la pelle dolorante di un corpo moribondo con una seconda pelle, più delicata... Una pelle psichica, una pelle dell’anima».
Nonostante il suo quotidiano impegno al fianco di chi affronta la morte, Marie rifugge da ogni idealismo compiaciuto e non ha timore di parlare con grande onestà etica e intellettuale di quello che chiama il suo “assillo segreto”: la sofferenza ha un senso?
Nel 2008 ha pubblicato “Il calore del cuore impedisce al corpo di invecchiare” e “Prendersi cura degli altri. Pazienti, medici, infermieri e la sfida della malattia”, editi entrambi da Rizzoli.