Guida alla lettura
L’urgenza delle cure palliative origina dagli stessi progressi della medicina, che spesso prolunga la vita senza sostenerne adeguatamente la qualità. E scaturisce dalla considerazione che «esistono ancora malattie inguaribili, ma non esistono persone incurabili», ossia di cui non ci si possa prendere cura facendole sentire degne del nostro amore e della nostra attenzione.
Due sono però, secondo Bianchi, le condizioni indispensabili all’efficacia delle cure palliative: la prima, soggettiva, è la capacità di non filtrare l’approccio di cura attraverso rigidi schemi razionali, ma lasciare che in noi parli il cuore e che «il nostro intuito guidi i nostri gesti»; la seconda, intersoggettiva, è la disponibilità a riconoscere i malati terminali «come persone che hanno ancora un ruolo da svolgere» e come individui da rispettare nella loro dignità. Entrambe le condizioni sono decisive: quanto è difficile lasciar parlare la libera interiorità di fronte all’evento paralizzante dell’agonia, tanto è arduo vedere nel morente non solo una persona intatta nella propria libera individualità, ma anche dotata di compiti e finalità, pur nella crescente debolezza indotta dal male e, non di rado, dai farmaci stessi. E va detto con chiarezza: questi non sono atteggiamenti che si improvvisano confidando sulla buona volontà, ma attitudini che emergono dall’abitudine a riflettere sulla vita e sulla morte, propria e delle persone amate.
Se queste condizioni si inverano, allora sarà il flusso di vita e di amore indotto da chi assiste ad avere l’ultima parola, e la morte potrà fare meno paura: perché «ciascuno è più grande del proprio corpo e della malattia che lo colpisce», ed è proprio nello spazio di questo scarto che si gioca la possibilità di affrontare la propria morte con serenità e di guardare alla morte degli altri vincendo l’orrore per ciò che attende noi stessi al termine della nostra esistenza.
Attilio Stajano lavora come volontario in un ospedale di Bruxelles dove da alcuni anni collabora con l’équipe di cure palliative: la sua esperienza, ma più ancora la sua passione per la dignità di ogni essere umano – anche e soprattutto quello nella fase terminale di una malattia – l’ha spinto a rendere conto del ricco mondo di sentimenti che si intrecciano davanti a un capezzale, che sia nelle stanze di un ospedale o nell’intimità di un focolare domestico.
Il suo recente “L’amore sempre” (Edizioni Lindau, Torino) ci offre un quadro del «senso della vita nel racconto degli ultimi giorni». Sono racconti, appunto, ma non di fantasia (eccetto i nomi dei protagonisti, per salvaguardarne l’intimità), che invitano a «non lasciarsi sfuggire l’esperienza di un nostro caro prossimo alla morte», come ricorda nella sua prefazione Marie de Hennezel, antesignana della riflessione sulle cure palliative con il suo “La morte amica”. Se «lasciamo che il nostro cuore parli» e che «il nostro intuito guidi i nostri gesti», allora la morte che vediamo prendere il sopravvento sul corpo della persona amata non farà più paura, perché è il flusso di vita che il nostro agire fa circolare ad avere l’ultima parola. E di queste «parole ultime» Stajano ne riporta molte, testimonianza che una morte serena è possibile prepararla e viverla, a condizione di riconoscere i malati terminali «come persone che hanno ancora un ruolo da svolgere e come individui rispettati nella loro dignità», una dignità che nessuna malattia può compromettere o condizionare.
In appendice il volume riporta anche la legislazione di fine vita e di cure palliative in Italia, Francia e Belgio: il confronto è testimonianza della riflessione in corso nella società civile, ed è di stimolo a “pensare” il cammino terminale del rapporto con il proprio corpo e con quello delle persone amate, perché ciascuno è più grande del proprio corpo e della malattia che lo colpisce. Sì, ogni persona può essere curata, sempre. Basta volerlo con amore intelligente.
Biografia
E’ membro dell’Académie Internationale des Sciences Religieuses (Bruxelles) e dell’International Council of Christians and Jews (Londra).
Fin dall’inizio della sua esperienza monastica, Enzo Bianchi ha coniugato la vita di preghiera e di lavoro in monastero con un’intensa attività di predicazione e di studio e ricerca biblico-teologica che l’ha portato a tenere lezioni, conferenze e corsi in Italia e all’estero (Canada, Giappone, Indonesia, Hong Kong, Bangladesh, Repubblica Democratica del Congo ex-Zaire, Ruanda, Burundi, Etiopia, Algeria, Egitto, Libano, Israele, Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Svizzera, Germania, Ungheria, Romania, Grecia, Turchia), e a pubblicare un consistente numero di libri e di articoli su riviste specializzate, italiane ed estere (Collectanea Cisterciensia, Vie consacrée, La Vie Spirituelle, Cistercium, American Benedictine Review).
E’ opinionista e recensore per i quotidiani La Stampa e Avvenire, membro del comitato scientifico del mensile Luoghi dell’infinito, titolare di una rubrica fissa su Famiglia Cristiana, collaboratore e consulente per il programma “Uomini e profeti” di Radiotre. Fa inoltre parte della redazione della rivista teologica internazionale “Concilium” e della redazione della rivista biblica “Parola Spirito e Vita”, di cui è stato direttore fino al 2005.
Nel 2009 ha ricevuto il “Premio Cesare Pavese” e il “Premio Cesare Angelini” per il libro “Il pane di ieri”.
Ha partecipato come “esperto” nominato da Benedetto XVI ai Sinodi dei vescovi sulla “Parola di Dio” (ottobre 2008) e sulla “Nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana” (ottobre 2012).
Il 22 luglio 2014 papa Francesco lo ha nominato Consultore del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani.