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Un medico semplice e obiettivo

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01/07/2009

Tratto da: Sándor Márai, La sorella, Adelphi, Milano, 2006

Guida alla lettura

Nel romanzo “La sorella”, Sándor Márai narra la vicenda di Z., pianista di fama mondiale che, recatosi a Firenze per un concerto, cade vittima di un rarissimo virus. I lunghi mesi di lotta contro il dolore, descritti con grande acutezza psicologica, saranno per lui un vero e proprio “attraversamento della morte”, come sottolinea il risguardo dell’edizione italiana. Un viaggio che Z. affronta come un “malato regolare, diligente e professionale”, al punto che ogni tanto questo lo annoia: “Perché noi esseri umani siamo capaci, a volte, di farci venire a noia persino l’inferno”.
L’artista stringe subito uno schietto rapporto di stima con il medico curante: un uomo che non minimizza la gravità della sua malattia (anche se le opinioni che esprime sulla sopportabilità del dolore possono risultare datate e discutibili), e che proprio per questo si dimostra capace di rincuorarlo anche nei momenti più difficili, come dimostra la sobria pagina che proponiamo.
La guarigione, però, verrà anche grazie all’aiuto di quattro suore addette ai servizi di infermeria. Nel momento in cui sembrerà che il pianista abbia rinunciato a lottare, sarà proprio una di loro – non riusciremo mai a stabilire con certezza quale – a dirgli, una notte, nel buio della stanza: “Non voglio che lei muoia”. Quella parola efficace lotterà in lui, con lui e per lui, e lo aiuterà infine a tornare alla vita. Un ritorno in cui anche Z. gioca una parte importante, come il dottore stesso riconoscerà al termine del romanzo: «Lei ha una tempra straordinaria, maestro. E ha imparato molto, negli ultimi mesi... Ha imparato che non basta essere malati, non basta prendere le medicine. Bisogna anche rispondere, alla malattia e a tutto ciò che ci mandano la malattia e la guarigione».
Dedichiamo questo brano intenso ai medici e al personale di assistenza che lottano ogni giorno al fianco dei loro pazienti, e che spesso si misurano amaramente con i limiti delle terapie. E agli ammalati che non si lasciano dominare dalla malattia, e che nella malattia cercano di non smarrire il senso profondo della propria vita e della propria dignità.
Era quasi giorno quando il professore decise di farmi un’altra iniezione. Guardai il suo volto pensieroso, il muto conflitto che lo agitava. Era seduto al mio capezzale da mezzanotte; in un primo momento mi aveva iniettato nel braccio una qualche sostanza chimica, mi aveva tastato il polso e mi aveva tranquillizzato dicendo che mi sarei subito addormentato; poi era uscito dalla stanza e aveva spento la luce. Ma non mi ero addormentato. Giacevo sveglio nel buio, seguivo il dolore con attenzione. Che dolore era? Chiusi gli occhi, cercai di farmene un’idea. Non assomigliava ad alcuna sensazione nota. Era un dolore nuovo, sorprendente, molto diverso dal tormento del mal di denti o dalle sofferenze lancinanti delle malattie respiratorie. Era qualcosa di forte, determinato, inconfondibile, che non mi dava tregua neanche per un attimo: cominciava all’altezza del cuore e pian piano si espandeva verso lo stomaco, dove finiva per annidarsi. Sentivo che era riuscito a trovare un suo comodo posto nel mio corpo, e ci sarebbe rimasto per un certo tempo. Avvertivo il dolore come si può avvertire una lama o un proiettile conficcatisi nelle carni: una materia estranea era penetrata nei tessuti e riposava profondamente nella materia molle. E ora che il dolore era dentro di me, tangibile come una ferita o un tumore, a un tratto mi calmai. Come se tutta quella cosa informe che nelle ultime ventiquattr’ore si era agitata dentro di me avesse improvvisamente acquistato forma.
E’ dunque questo il dolore, pensai. Giacevo immobile, con l’immobilità naturale e composta dei malati, le mani posate tranquillamente sul bordo della coperta, eppure giacevo più pesantemente e orizzontalmente di quanto possa una persona sana: è così che giacciono i morti, o gli svenuti, o anche chi è stato malmenato. Deve sentirsi così il pugile al tappeto dopo aver ricevuto un gancio allo stomaco. Mi ricordavo vagamente di aver inteso dire che i ganci allo stomaco possono anche essere mortali. Che strano, pensai, quando ero stato colpito?... Nella Sala Bianca non era successo nulla, avevo suonato bene anche l’Appassionata fino all’ultimo movimento, l’allegretto ma non troppo, fino all’ultima nota del presto, e quella nota l’avevo sentita nel corso della notte, nel silenzio profondo che mi circondava, come qualcosa di distante, ormai, il tremolio di un fenomeno sonoro estraneo al mio corpo e alla mia anima... Probabilmente mi ero inchinato come si deve... Poi ero uscito dalla sala. Il camerino era inondato dal profumo degli allori. Mezz’ora più tardi mi portarono in clinica; fu il professore ad accompagnarmi con la sua auto, senza chiamare l’ambulanza.
lo gli sedevo accanto, mentre lui guidava con perizia in quelle strade buie; conversavamo. Ricordo che mi scusai per quell’inconveniente notturno; lui mi tranquillizzò, gentile, dicendomi che non avevo nulla di cui vergognarmi, e che potevo continuare a fare il malato quanto mi pareva e piaceva. Quasi fosse un padrone di casa che dice all’ospite: «Ma per carità, si metta a suo agio, si ammali pure qui da noi, senza far complimenti, sans façon, no?...». Quel suo modo rassicurante, placido e benintenzionato, riuscì a calmarmi e a disarmarmi. Sicuramente mi sarei infuriato se a portarmi in clinica fosse stato un medico mediocre, uno sciocco pieno di boria che magari cercasse di rincuorarmi sostenendo che si trattava sicuramente di una cosa da nulla. Quell’uomo non cercò di rincuorarmi, né allora né mai; mi parlò sempre con obiettività della mia malattia e del mio destino in maniera semplice, da uomo a uomo.
«Credo che sia grave» dissi durante il tragitto in auto, mentre lui scrutava la strada buia; annuì e rispose comprensivo: «Sì, sembra proprio così». Non disprezzava il malato che era in me, non mi trattava come un bambino o come un imbecille, rispettava la mia dignità; di questo gli ero infinitamente grato. «Esiste una categoria di medici insopportabili,» gli dissi «sa, quei medici tronfi e disumani che entrano nella camera dove giace un malato in fin di vita, dal colorito cianotico, e loro gli dicono gioviali, fregandosi le mani: “E allora, come sta oggi il nostro giovanotto?”... Ha presente?». Si mise a ridere. «Certo che l’ho presente» rispose. Tacemmo di nuovo, mentre correvamo nella notte per le strade di Firenze. «Ho dolori fortissimi» dissi, e per un attimo guardai fuori dal finestrino, riconobbi il Palazzo della Signoria. «Sì,» replicò premuroso «lo vedo. Devono essere dolori fuori dal comune ». Era come se parlasse del colore del mio cappello: parlava di fatti, senza agitarsi, senza enfasi. «Sa,» aggiunse poi amichevolmente, senza guardarmi, mentre girava con prudenza il volante con le vecchie mani bianche, svoltava in una strada e fermava l’automobile davanti a un grande edificio «sono solito dire che ci sono due sostanze senza le quali preferirei non esercitare la professione di medico». Estrasse la chiave di accensione e il magico occhio verde che indica la vita del motore si spense. «La morfina» tirai a indovinare. Annuì. «La morfina, certo,» disse in tono amichevole, aprendo la portiera e aiutandomi a scendere «e il bicarbonato di sodio. Sono entrambe sostanze che danno sollievo entro i primi venti minuti». Mi prese sottobraccio e mi guidò all’ascensore.
Era ritornato con la siringa. Stava albeggiando. Si fermò davanti al mio letto con la siringa in mano e mi osservò con attenzione. «Soffre molto» disse annuendo, chinandosi appena, con lo sguardo miope, come se non guardasse tanto me, un essere umano, bensì una specie straordinaria di dolore che avesse isolato in laboratorio. Mi aveva guardato a quel modo anche ore prima, quando eravamo arrivati in clinica. Non mi aveva chiesto quanto soffrissi, piuttosto aveva stabilito la temperatura del dolore, come chi dicesse: «Caspita, oggi ci sono quaranta gradi!». Gli risposi immobile: «Soffro moltissimo. Non sapevo che esistesse un dolore simile». La stanza era illuminata da una intensa luce elettrica. «È insopportabile?...» chiese con serietà, in tono colloquiale. Ci pensai su. «Quasi. Credo che sia questo il dolore che si suole definire insopportabile. Ma a quanto pare si può sopportare anche questo». Approvò bonario: «Mi a piacere che sia tanto sincero. No, non esiste dolore insopportabile. Il dolore può essere terribile, ma non è mai insopportabile. Quando lo è veramente, non lo sentiamo più». «Esiste una scala del dolore?» chiesi. Il professore si strinse nelle spalle. «È difficile rispondere» dichiarò in tono affabile. «I dolori cardiaci, gli spasmi delle coronarie, i dolori della calcolosi renale o biliare, quelli di qualsiasi infiammazione, le doglie del parto... Il dolore umano ci offre un’ampia scelta. Ma io credo» proseguì con cortesia, come se non volesse diminuire l’importanza dei miei dolori, e salvaguardare la mia autostima e la mia sensibilità «che i suoi dolori siano molto in alto in questa scala».
Prima che facesse giorno mi praticò dunque la seconda iniezione, poi mi prese la mano e si sedette accanto al letto senza dire una parola, senza muoversi. Sentire un contatto mi fece bene. Il dolore si era placato, e nella quiete ronzante che mi circondava mi sentii rincuorato da quella mano che in un mondo estraneo, nella desolazione che era piombata su di me, mi avvertiva senza sentimentalismi che anche nelle situazioni più orribili il conforto e la solidarietà non vengono mai meno.
D’un tratto il dolore svanì, come quando per qualche motivo un rumore intollerabile cessa di colpo, senza passaggi intermedi. La pace, come un velo celeste, calò piano su di me. Attraverso quel velo scorsi il volto vetusto, pieno di rughe e incorniciato dalla barba bianca, quel volto umano, spossato dalla veglia eppure ancora illuminato da uno sguardo premuroso ed equanime, che nel momento in cui la seconda iniezione cominciava a fare il suo effetto si stava trasformando in maniera strana. «Cosa sente adesso?» gli sentii dire, ma da lontano, come se mormorasse. «Niente» risposi, altrettanto a bassa voce. Annuì, e sul suo volto apparve quel sorriso che non riesco a dimenticare: come se sorridesse della sua impotenza, come se con quel suo annuire confessasse che la sua scienza e la sua capacità di aiutarmi erano arrivate più o meno al limite e questo era tutto quello che un uomo poteva fare per un altro, in casi estremi: una iniezione di oppiacei alla quale nel corpo e nell’anima torturati sarebbe seguita ben presto la pace. Si alzò, sussurrò qualcosa all’infermiera e uscì dalla stanza senza dir nulla.

Biografia

Sándor Márai nasce a Kassa (oggi Košice), nel 1900. La città, un tempo nell’impero Austro-Ungarico, appartiene oggi alla Repubblica Slovacca. Giornalista e scrittore, deve la sua fama in Italia ai romanzi “Le braci”, “L’eredità di Eszter”, “I ribelli” e “La sorella”, tutti pubblicati da Adelphi.
Di antica famiglia sassone, studia giornalismo a Lipsia, vive a Francoforte e a Berlino. Nel 1917 pubblica la sua prima opera, una raccolta di poesie intitolata “Il libro dei ricordi”. Pochi anni dopo sposa Lola, di origini ebraiche, con la quale alla fine del secondo conflitto mondiale adotterà un orfano di guerra, János.
Negli anni Venti, mentre la crisi economica devasta la Germania, Márai si reca a Parigi come inviato dalla Frankfurter Zeitung. Nel 1928 si sposta a Budapest, ove comporrà molti dei suoi lavori in uno stile asciutto, realistico e al tempo stesso elegante. Sul piano politico, prende una posizione critica verso tutti i regimi dittatoriali.
Nel 1948, perseguitato dal governo comunista, abbandona l’Ungheria. Si rifugia in Svizzera, poi a Napoli, e infine a San Diego, California, ove continua a scrivere in ungherese. Varie vicissitudini e problemi di salute lo riportano in Italia, e poi nuovamente negli Stati Uniti. Dopo la morte della moglie e del figlio, cade in una profonda depressione e si isola sempre di più. Muore suicida nel 1989: secondo le sue ultime volontà, le ceneri vengono disperse nell’Oceano Pacifico.
Lungamente sottovalutato al di fuori dell’Ungheria, Márai è oggi considerato uno dei più grandi scrittori europei del Ventesimo secolo.

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