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Liza e il dottor Korolëv

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29/06/2011

Tratto da:
Antòn Čechov, Un caso della pratica medica, in "Racconti e teatro", Sansoni Editore, 1966, Firenze, p. 1073-1074

Selezione del brano, guida alla lettura e biografia a cura di Emanuela Aliquò

Guida alla lettura

Nel racconto “Un caso della pratica medica” (1898), da cui è tratta la pagina che segue, Antòn Pàvlovič Čechov, medico e scrittore, da una parte ci presenta l’interessante caso clinico della giovane e infelice Liza; dall’altra, condivide con il lettore le proprie riflessioni sulla natura umana e su alcuni aspetti critici dell’epoca di trasformazione sociale in cui vive.
In seguito a un telegramma in cui si richiede con urgenza l’intervento di un medico, il dottor Korolëv si mette in viaggio (occorrerà scendere alla “terza stazione dopo Mosca”) verso il paese di campagna in cui vive l’ammalata, la figlia della proprietaria della fabbrica Ljàlikov. Giunto sulla soglia della casa padronale (è una quieta e primaverile sera di sabato), ad attenderlo trova due donne: la madre di Liza, una signora vestita di nero, dall’aria debole e spaventata; e, accanto a lei, una Christina Dmìtrievna, la governante, che “con una camicetta variopinta”, modi saccenti e fastidiosi, si affretta ad esporre al medico la storia clinica e le cause dei disturbi della ragazza, figlia unica ed erede della signora Ljàlikova.
Da qui ha inizio la narrazione della pagina proposta, la cui ricchezza di fatti, parole, immagini ed eventi psicologici ci offre spunti di riflessione veramente significativi.
Ci sono le relazioni familiari malate che paralizzano ogni energia vitale, ogni processo di autonomia e autorealizzazione, rappresentate dall’invischiata triade femminile, dominata dal ruolo schiacciante della governante e, soprattutto, dalla totale simbiosi fra la signora Ljàlikova e la figlia Liza.
In modo sorprendentemente attuale, c’è l’importanza dell’attenzione alla persona malata considerata nella sua globalità, e alle sue relazioni, più che al sintomo (nello specifico, “la palpitazione di cuore”) e alla malattia; e da ciò traspaiono la preziosità e l’efficacia dell’approccio terapeutico di tipo olistico.
C’è poi la dimensione emotiva e profondamente umana del dottor Korolëv che, lasciatosi trasformare dalla misteriosa alchimia della relazione medico-paziente, a un tratto riuscirà a guardare l’ammalata con occhi nuovi e a provare il desiderio di calmarla con “una semplice parola affettuosa”, e con gesti di vicinanza fisica. Nel mettere da parte la somatizzazione della sua sofferenza e nel ricorrere alla comunicazione non verbale (a un certo punto, la ragazza si afferrerà la testa fra le mani e si metterà a singhiozzare) Liza, che non intende arrendersi alle parole del medico («Tutto va benissimo, tutto è in ordine»), avrà forse reso più autentica, interessante e vera la sua richiesta di aiuto?
Ma al di là di tutto, attraverso questo brano, ricchissimo di elementi avvincenti anche dal punto di vista della tecnica narrativa, lo scrittore russo ci aiuta a riflettere sull’importanza dell’atteggiamento di chi è chiamato a prendersi cura dell’altro e ci dona un bagliore della sua grande esperienza medica, rivisitata attraverso gli occhi di Korolëv (nella cui voce e modo di essere si nascondono quelli di Čechov).
In merito, ecco le parole limpide e bellissime di Cristina Campo, definita “la trappista della perfezione”: «L’incomparabile simpatia umana di Čechov, ciò che ne rende così amabile e consolatrice l’apparizione è veramente la simpatia del medico: di colui che porta in sé senza troppe parole, “fischiettando talvolta sopra pensiero”, il confluire di innumerevoli patimenti. Egli entra ed esce da quelle case e sa che ben poco può fare per quella gente, e ben poco crede alla sua stessa arte; ma siede al capezzale e vi rimane. Egli porta con sé il solo farmaco vero: lo sguardo inconfondibile di chi è pronto a vegliare con noi; il linguaggio discreto e pudico, da “gentiluomo”, di chi ha imparato a ricordare di continuo, a sé e agli altri, quel che possa valere il dolore quando lo raccolga lo specchio di un amore senz’ombre» (Cristina Campo, Un medico, in “Gli imperdonabili”, Adelphi, Milano, 1987, p. 197).
Andarono dall’ammalata. Ormai adulta, grande, di bella statura, ma brutta in viso e somigliante alla madre, con gli stessi piccoli occhi e la parte inferiore del volto larga e smisuratamente sviluppata, spettinata, con le coperte fino al mento, essa nel primo istante fece su Korolëv l’impressione di una creatura infelice, misera, raccolta lì e curata per compassione, e non si poteva credere che fosse l’erede dei cinque enormi edifici.
«Eccoci a voi – cominciò Korolëv – siamo venuti a curarvi. Buongiorno».
Si presentò e le strinse la mano: una mano grossa, fredda e brutta. Ella si mise a sedere, ed evidentemente ormai da lungo tempo abituata ai dottori, indifferente al fatto di avere le spalle e il petto scoperti, si lasciò auscultare.
«Ho la palpitazione di cuore» disse. «Per tutta la notte è stata una cosa terribile... per poco non sono morta di spavento! Datemi qualche cosa».
«Ve la darò, ve la darò! Calmatevi».
Korolëv la visitò e si strinse nelle spalle.
«Il cuore funziona a dovere – disse egli – va tutto benissimo, tutto è in ordine. I nervi, probabilmente sono un po’ scossi, ma questa è una cosa assai comune. La crisi, c’è da pensare, è già finita, mettetevi a dormire».
In quel momento fu portata nella camera una lampada. L’ammalata strizzò gli occhi alla luce e a un tratto si afferrò la testa fra le mani e si mise a singhiozzare. E l’impressione di una creatura misera e brutta scomparve di colpo, e Korolëv non notò più né i piccoli occhi, né la parte inferiore del volto grossolanamente sviluppata; egli vedeva una dolce espressione di sofferenza, tanto ragionevole e commovente, ed ella gli appariva slanciata, femminile, semplice, e avrebbe voluto calmarla non con le medicine, non con i consigli, ma con una semplice parola affettuosa. La madre le abbracciò la testa e la strinse a sé. Quanta disperazione, quanto dolore sul volto della vecchia! Lei, sua madre, aveva nutrito e allevato la figlia senza risparmiar nulla, tutta la vita le aveva consacrato per farle insegnare il francese, le danze, la musica, aveva chiamato per lei una diecina di maestri e i migliori dottori, aveva tenuto una governante, ed ora non capiva di dove venissero quelle lacrime e il perché di tante sofferenze, non capiva e si smarriva, e aveva un’aria colpevole, inquieta, disperata, come se avesse tralasciato qualche cosa di molto importante, non avesse ancora fatto qualche cosa, non avesse chiamato qualcuno, ma chi, non lo sapeva. «Lìzan’ka, di nuovo... di nuovo» diceva, stringendo a sé la figlia. «Golubka, bimba mia, dimmi che cos’hai? Abbi pietà di me, dimmelo». Korolëv sedette sulla sponda del letto e prese Liza per la mano.
«Basta, è forse il caso di piangere?» disse affabilmente. «Al mondo infatti non c’è nulla che meriti queste lacrime. Via, non piangiamo più, non bisogna...».
E tra sé pensò: «Sarebbe tempo di maritarla»...
«Il medico della nostra fabbrica le dava del bromuro – disse la governante – ma questo, ho notato, la fa solo star peggio. Secondo me, si tratta del cuore, servono le gocce... ho dimenticato come si chiamano... Di mughetto, o che so io». (...)
Korolëv provò fastidio.
«Io non trovo niente di particolare» disse nell’uscir dalla camera rivolgendosi alla madre. «Poiché vostra figlia era curata dal medico della fabbrica, lasciate che continui a curarla. Il trattamento usato finora è giusto e io non vedo la necessità di cambiar medico. Perché cambiare? È una malattia così comune, non c’è nulla di grave...».
Egli parlava senza fretta, infilando i guanti, e la signora Ljàlikova se ne stava immobile e lo guardava con gli occhi rossi di pianto.
«Manca una mezz’ora al treno delle dieci – disse egli – spero di non arrivare in ritardo».
«Non potreste rimanere qui da noi?» domandò la madre, e di nuovo le lacrime le rigarono le guance. «Ho vergogna d’incomodarvi, ma siate così buono... Per amor di Dio – continuò a mezza voce, voltandosi a guardar la porta – passate la notte da noi. Lei è la mia sola... unica figlia... La notte scorsa mi ha spaventata, non posso riavermi... Non ve ne andate, per amor di Dio...».
Egli avrebbe voluto dirle che a Mosca aveva molto lavoro, che a casa lo attendeva la famiglia; gli riusciva penoso passare in casa di estranei senza necessità tutta la serata e tutta la notte, ma guardò il suo volto, sospirò e in silenzio prese a togliersi i guanti.

Biografia

Antòn Pàvlovič Čechov nasce nel 1860 a Taganròg, nella Russia del Sud, presso il mare d’Azòv, un piccolo paese dove il padre, Pàvel Egoròvič (nato in una famiglia originariamente di servi della gleba), descritto come un tiranno, possiede un negozio di generi alimentari e coloniali.
Iscritto al liceo locale, nel tempo libero dalla scuola, Antòn sbriga commissioni e aiuta il genitore in bottega.
Nel 1876, Pàvel Egoròvič fallisce ed è costretto a trasferirsi con la famiglia a Mosca per sfuggire ai creditori, mentre Čechov, allora sedicenne, rimane altri tre anni a Taganròg per finire la scuola e si mantiene dando ripetizioni ai compagni più giovani. Sin da ragazzo, manifesta una naturale disposizione all’allegria, allo scherzo e al gioco mimico. Ecco cosa scrive Thomas Mann: «In questi scherzi si esprime il fondamento primitivo, mimetico dell’arte, il talento, il piacere e l’abilità ciarlatanesca di divertire, che un giorno dovrà por mano a mezzi del tutto diversi, riversarsi in forme completamente nuove, unirsi con elementi spirituali, nobilitarsi moralmente, dal puro divertimento elevarsi alla commozione, ma conservando sempre, anche nella più profonda e amara serietà, il senso del comico» (Saggio su Čechov, in “Racconti e teatro”, Sansoni Editore, 1966, Firenze, p. XX).
Nel 1879, ottenuta la maturità classica, Čechov raggiunge la famiglia a Mosca e s’iscrive alla Facoltà di Medicina, cui si dedica con zelo. Si manifestano i primi segni della tubercolosi, la malattia che lo porterà a una morte prematura.
A partire dal 1880, per mantenersi agli studi e contribuire a sostenere i genitori e i fratelli più giovani, comincia a scrivere brevi racconti umoristici, venduti per poche lire a mediocri riviste moscovite, e in pochi anni ne porta a termine più di trecento. È importante rilevare che, a poco a poco e al di là dell’intenzione dell’artista, in quegli articoletti cominciano a intravedersi note critiche e accenti sofferti nei confronti della società, insieme al desiderio di una vita più libera e più umana.
Nel 1884, finita l’Università, fa pratica nell’ospedale distrettuale di Voskresènsk e continua a dedicarsi alla letteratura umoristica: pubblica la sua prima raccolta, “Le fiabe di Melpomene”, espressione limpida e spontanea della sua volontà di divertire.
Nel 1886, l’editore Suvorin gli chiede di collaborare alla rivista “Nòvoe Vremja” (“Tempo nuovo”), dove Čechov ottiene un posto preminente nel supplemento letterario settimanale. In tal modo ha la possibilità di dedicarsi realmente alla letteratura: esce la seconda raccolta, “Racconti variopinti”. Da Pietroburgo gli giungono le parole elogiative di Dmitrij Vasìlevič Grigorovic, scrittore e critico letterario, il quale lo incita a dedicare le sue energie e il suo straordinario talento per prove più rigorose: per il giovane Čechov, che fino a quel giorno aveva sempre guardato con scarsa attenzione alle proprie doti artistiche, la lettera del noto e anziano scrittore costituisce un avvenimento importantissimo, commovente, decisivo.
Nel 1887, pubblica la terza e la quarta raccolta, rispettivamente intitolate “Nel crepuscolo” e “Discorsi innocui” e, nel 1888, dopo il clamoroso successo della novella “La steppa” , riceve il premio Puškin dall’Accademia delle Scienze.
Per Čechov, la passione per la letteratura e la vicinanza concreta al dolore dell’uomo (unitamente al suo amore per il lavoro) sono un tutt’uno, si nutrono reciprocamente. A fianco dell’attività artistica, opera instancabilmente nella sua funzione di medico, nell’ospedale di campagna di Čikin, vicino a Voskresènk, e nell’ospedale del distretto di Zvenìgorod, presso Mosca.
Nel 1890, attraversata faticosamente (e pericolosamente per la sua salute già precaria) tutta la Siberia, visita una colonia penale nella lontana isola di Sachalìn, per compiere un’inchiesta sulla vita nei penitenziari; nel volgere di pochi anni, lo scalpore sollevato da questo viaggio e l’accurata indagine provocheranno importanti riforme del sistema carcerario. Nel 1892, a Melichovo, nella sua piccola proprietà, Čechov conduce una significativa lotta contro il colera e si prodiga tra gli ammalati; in seguito farà di tutto per migliorare le condizioni dei contadini, e parteciperà attivamente alle iniziative per la diffusione dell’istruzione tra il popolo.
Nel 1892 inizia la collaborazione ad un’altra importante rivista, “Rùsskaja Mysl” (Il pensiero russo) con “La corsia n.6”.
Dopo il 1897, l’aggravarsi della tubercolosi lo costringe a passare lunghi periodi in località climatiche russe ed estere. Nel frattempo, come già avvenuto per i racconti, le sue opere teatrali incontrano un crescente successo.
Dopo aver scritto alcuni atti unici, scherzi o vaudeville (genere teatrale con il quale in modo umoristico e colorito si rappresentano le contraddizioni e le debolezze che da sempre caratterizzano l’uomo), e un dramma borghese, “Ivanov” (1887), ha inizio con “Il Gabbiano” (1896) la fase matura e rilevante del teatro cechoviano: messo in scena da attori scadenti, il dramma è un insuccesso clamoroso, ma due anni più tardi, l’attore e regista Konstantin Sergeevič Stanislavskij, fondatore con Vladimir Nemirovič-Dančenko del Teatro d’arte di Mosca, riprenderà l’opera con grande intelligenza, e sarà un successo trionfale. Conosce l’attrice Ol’ga Leonàrdovna Knipper, che nel 1901 diventerà sua moglie.
Successivamente, sempre al Teatro d’arte, avrà luogo la prima rappresentazione di altri tre capolavori: “Zio Vanja” (1899); “Le tre sorelle” (1901), dove Ol’ga Leonàrdovna Knipper sostiene la parte di Maša; “Il giardino dei ciliegi” (1903). La redazione della raccolta delle Opere per l’edizione Marks (1899), un corpus organico di duecentoquaranta racconti e dodici opere teatrali, rimarrà fondamentale per lunghi anni.
Nel 1900, è nominato membro onorario dell’Accademia delle Scienze di Pietroburgo, nella Sezione Letteraria; tuttavia, due anni più tardi, quando la scelta di Gor’kij, poeta proletario, verrà bocciata dal Governo per i suoi sentimenti radicali, egli, in segno di protesta, darà le dimissioni.
Gli ultimi anni della sua vita, trascorsi a Jalta, nel clima secco della Crimea (dove nel 1898 aveva acquistato un terreno e costruito un villino per curare la salute), rappresentano un tempo particolarmente gratificante: per il matrimonio con Ol’ga, per l’amicizia con Gor’kij, per il dignitoso rapporto con Lev Nikolaevič Tolstòj (avviato nel 1895), per la vicinanza del Teatro d’arte che va a trovarlo per recitargli i suoi lavori.
Per quanto concerne la trama delle sue opere, Čechov rappresenta con forte realismo e intensa partecipazione esistenze spesso insignificanti di persone segnate dalle difficoltà della vita, rassegnate al proprio destino di “immobilismo”, incapaci di comunicare con i propri simili e di reagire per migliorare le proprie condizioni di vita.
Con leggerezza di tocco e di colore, descrive la miseria, la mediocrità e le terribili condizioni sociali della Russia zarista tra il XIX e il XX secolo e, nello stesso tempo, pur rinunciando all’opera monumentale e grandiosa, riesce a comporre il quadro eterno e immenso della comune condizione umana, con i suoi inevitabili mali: donde, come riscatto e unico rimedio, «l’urgenza di vivere secondo leggi del tutto opposte e complementari, secondo cioè quella rischiosa “follia d’amore” che l’uomo di continuo si adopera a soffocare in se stesso e negli altri» (Cristina Campo, Op. cit., p. 193).
Quanto più la sua fine si avvicina, tanto più il suo sguardo sul futuro si apre alla speranza in una società più umana, più fraterna, più libera; inattuata ma possibile, come traspare dagli ultimi racconti, fra cui ricordiamo “Un caso della pratica medica” (1898) e “La fidanzata” (1903).
Nel 1904 le condizioni di Čechov peggiorano: si reca a Badenweiler (località termale tedesca) dove muore nella notte tra l’1 e il 2 luglio. Verrà sepolto a Mosca, nel cimitero del Monastero delle Vergini.
Per lo stile particolare e inimitabile della sua produzione, nella quale liricità, umorismo, satira e drammaticità si conciliano con rara maestria; per il suo teatro intimo e “d’atmosfera”, fondato cioè sulle pause, sui silenzi, sulla rappresentazione di stati d’animo, più che sui fatti; per l’essenzialità dei racconti, che, per “virtù del genio”, riescono a «contenere l’intera pienezza della vita» (Thomas Mann, Op. cit., p. XVII), l’opera di Čechov è considerata quanto di più bello e creativo vi sia nella letteratura europea.

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