Guida alla lettura
La volta scorsa abbiamo lasciato il dottore mentre stava per cedere, pur se a malincuore, all’accorata richiesta della signora Ljàlikova – madre dell’ammalata – di trascorrere la notte presso la loro casa.
Adesso, nella parte immediatamente antecedente al testo, ritroviamo il dottor Korolëv che, dopo aver cenato ed essere andato nella stanza preparata per lui, sente il bisogno di uscire per prendere aria; ma anche la realtà esterna gli apparirà come un “reclusorio” (nei racconti di Čechov l’ambiente diviene spesso “co-protagonista” e anticipatore delle vicende): nel buio della notte, lo vediamo quindi aggirarsi, serio e pensoso, fra i cinque enormi edifici della fabbrica di tessuti, i fumaioli, i depositi di merci, le baracche dove dormono gli operai; mentre i guardiani notturni, con suoni strani e sgradevoli, scandiscono ritmicamente il tempo. Abbiamo anche modo di condividere alcune sue osservazioni, come quelle sulla natura del male che, da sempre, crea le relazioni umane fondate sulla violenza, su «quella forza direttrice ignota che sta fuori della vita ed è estranea all’uomo», cui sembrano sottomettersi involontariamente sia il forte che il debole, «ugualmente vittime dei loro reciproci rapporti».
In questo contesto s’inserisce la pagina che proponiamo, la cui ricchezza di significati va oltre la dimensione strettamente terapeutica. Tra gli spunti di riflessione di carattere generale possiamo evidenziare la preziosità del ruolo delle agenzie educative (famiglia, scuola, associazioni), che dovrebbero sempre cercare di favorire nell’altro progetti di vita consapevoli e liberi da condizionamenti e paure, in armonia con le inclinazioni e i talenti posseduti; l’importanza della lettura come opportunità per vivere meglio e con più pienezza la vita e i suoi compiti; il buon uso della ricchezza che tante volte, paradossalmente, è causa d’infelicità; l’importanza della sana e necessaria inquietudine («l’insonnia degna di rispetto»), che è ricerca del bene e della verità e che, di fronte alle insidie del male, dà la forza di lottare e di tendere verso una meta ritenuta meritevole delle nostre energie e del nostro tempo.
Per quanto concerne la relazione medico-paziente, e i processi di trasformazione che ne derivano, Čechov mette in luce l’importanza della com-passione (“cuore pulsante” di ogni cura), dell’ascolto dell’ammalato e del suo punto di vista, del contatto vivo (significativo il gioco di sguardi tra i due), dell’attenzione pienamente esercitata («una feritoia aperta a tutte le frecce», per usare ancora le parole di Cristina Campo) anche all’ambiente di vita e alla trama relazionale della persona sofferente; e ci orienta sul senso ultimo del rapporto terapeutico, che è soprattutto tendere insieme verso il bene del paziente.
Ed è in questa direzione che il desiderio della ragazza di parlare un poco non con un dottore, ma con una persona che le sia amica, si ricompone e ritrova la sua luce. Illuminanti a questo proposito risultano le parole contenute nel dialogo platonico dedicato all’amicizia, come quando si evidenzia che «il malato è amico del medico a causa della malattia e in vista della salute» (Liside 218e, in Platone, Teage - Carmide - Lachete - Liside, Introduzione traduzione e note di Bruno Centrone, BUR, Milano, 1997, p. 443).
Bella ed eloquente la scena in cui Liza, la ragazza dagli “occhi tristi e intelligenti” (cui auguriamo un cammino di perseveranza verso il compimento delle scelte giuste, e la costruzione di una solida identità personale e sociale), la mattina del giorno dopo – una luminosa domenica di maggio – si presenta vestita di bianco e con un fiore tra i capelli (segni nuovi che richiamano l’energia vitale e il desiderio di rinascita): è l’immagine attraverso la quale Čechov (il cui percorso di vita è un lampante esempio di riorganizzazione resiliente) intende anche esprimere il suo senso di speranza e di fiducia in un futuro più umano e vivibile per tutti.
«Non avrà un’altra crisi?» pensò Korolëv.
Egli uscì per dare un’occhiata all’ammalata. Nelle stanze era già chiaro del tutto e sulla parete e sul pavimento del salone tremolava un debole raggio di sole, penetrato là dentro attraverso la nebbia del mattino. La porta della camera di Liza era aperta ed ella stava in una poltrona accanto al letto, con una capote, ed era avvolta in uno scialle e spettinata. Le tendine alle finestre erano abbassate.
«Come vi sentite?» domandò Korolëv.
«Vi ringrazio».
Egli le tastò il polso, poi le aggiustò i capelli che le cadevano sulla fronte.
«Voi non dormite» disse. «Fuori il tempo è magnifico, è primavera, cantano gli usignuoli e voi state qui al buio e pensate a non so che cosa.»
Ella lo ascoltava e lo guardava in viso; aveva gli occhi tristi, intelligenti e si vedeva che voleva dirgli qualcosa.
«Vi capita spesso?» egli domandò.
Ella mosse le labbra e rispose:
«Spesso. Quasi ogni notte mi sento un’oppressione».
In quel momento, nel cortile, i guardiani cominciarono a battere le due... Si udì: “Der... der...” ed ella sussultò.
«Vi disturbano questi suoni?» domandò egli.
«Non so. Qui tutto mi disturba. Nella vostra voce io sento la compassione; fin dal primo sguardo, chi sa perché, mi è sembrato che con voi si potesse parlar di tutto».
«Parlate, vi prego».
«Voglio dirvi la mia opinione. A me pare di non essere malata, ma io m’inquieto e ho paura, perché deve essere così e non può essere altrimenti. Anche la persona più sana non può fare a meno d’inquietarsi se sotto la sua finestra, per esempio, si aggira un brigante. Sono curata di frequente» proseguì guardandosi le ginocchia e sorridendo timidamente «certo, io ne sono molto riconoscente e non nego l’utilità delle cure, ma vorrei parlare un poco non con un dottore, bensì con una persona che mi fosse vicina, con un amico che mi sapesse comprendere, che potesse convincermi che ho ragione o torto».
«Non avete forse amici?» domandò Korolëv?
«Io sono sola. Ho mia madre e le voglio bene, e tuttavia sono sola. La vita è andata così... I solitari leggono molto, ma parlano poco e poche cose ascoltano, la vita per loro è misteriosa; essi sono dei mistici e spesso vedono il diavolo là dove non c’é. La Tamara di Lèrmontov era sola e vedeva il diavolo».
«E voi leggete molto?».
«Molto. Gli è che io ho tutto il mio tempo libero, da mattina a sera. Di giorno leggo, ma di notte la mia testa è vuota e, invece di pensieri, ci passano non so quali ombre».
«Vedete qualche cosa la notte?» domandò Korolëv.
«No, ma sento...».
Ella sorrise di nuovo e levò gli occhi sul dottore, con uno sguardo così pieno di tristezza e d’intelligenza... e a lui pareva ch’ella avesse fiducia in lui, volesse parlargli con sincerità e pensasse alla sua stessa maniera. Ma ella taceva e forse attendeva che parlasse lui.
Ed egli sapeva quel che doveva dirle; per lui era chiaro che ella avrebbe dovuto lasciare al più presto quei cinque fabbricati e il milione, se lo possedeva, lasciare quel diavolo che nelle notti la fissava; per lui era pure chiaro che anche lei la pensava così e attendeva solo che qualcuno, nel quale avesse fiducia, glielo confermasse.
Ma egli non sapeva come dire tutto ciò. Come? Si ha soggezione di domandare ai condannati perché siano tali; del pari è imbarazzante domandare alle persone assai ricche perché abbiano tanti denari, per qual ragione facciano un così cattivo uso della loro ricchezza, per qual ragione non rinuncino ad essa, neppure quando vi scorgono la propria infelicità, e, se si comincia a parlarne, la conversazione di solito è timorosa, disagevole e lunga.
«Come dirlo?» esitava Korolëv. «Ma è poi necessario dirlo?».
Ed egli disse ciò che voleva non direttamente, ma per vie traverse.
«Voi siete scontenta della vostra condizione di proprietaria di fabbrica e di ricca ereditiera, voi non credete nel vostro diritto, ed ecco che ora non dormite. Questo è certamente meglio che se voi foste contenta, dormiste sodo e pensaste che tutto va benone. La vostra insonnia è degna di rispetto; comunque sia, essa è un buon segno. In realtà per i nostri genitori una simile conversazione non sarebbe stata concepibile; la notte essi non conversavano, ma dormivano sodo, noi invece, quelli della nostra generazione, dormiamo male, ci angustiamo, parliamo molto e stiamo sempre a decidere se abbiamo ragione o torto. Ma per i nostri figli o nipoti questo problema, se abbiamo ragione o torto, sarà già risolto. Essi vedranno meglio di noi. Fra una cinquantina di anni la vita sarà bella, peccato soltanto che noi non tireremo avanti fino allora. Sarebbe interessante poterci dare un’occhiata».
«Che cosa faranno dunque i nostri figli e i nostri nipoti?» domandò Liza.
«Non lo so... Forse lasceranno tutto e se ne andranno».
«E dove andranno?».
«Dove?... Ma dove vorranno» disse Korolëv mettendosi a ridere. «Sono forse pochi i luoghi dove può andare una persona brava e intelligente?».
Egli guardò l’orologio.
«Il sole è già spuntato, però» disse. «È ora che dormiate. Spogliatevi e dormite a vostro agio. Sono assai lieto di avervi conosciuta» continuò stringendole la mano. «Voi siete un essere eccellente e interessante. Buonanotte!».
Egli andò nella sua camera e si coricò. La mattina del giorno dopo, quando fu fatta venire la carrozza, tutti uscirono sul terrazzino ad accompagnarlo. Liza era vestita a festa con un abito bianco, con un fiore tra i capelli, pallida e languida; ella lo guardava, come il giorno innanzi, con un’aria triste e intelligente, sorrideva e parlava con lui sempre con un’espressione come se volesse dirgli qualche cosa di particolare, di importante, e soltanto a lui. Si sentivano cantare le allodole e sonare le campane della chiesa. Le finestre dei cinque corpi di fabbrica brillavano gaiamente, e attraversando il cortile, e poi durante il tragitto verso la stazione Korolëv non si ricordava più né degli operai né delle costruzioni su palafitte, né del diavolo, ma pensava al tempo, forse già prossimo, in cui la vita sarebbe stata così luminosa e lieta come quel placido mattino domenicale...
Biografia
Iscritto al liceo locale, nel tempo libero dalla scuola, Antòn sbriga commissioni e aiuta il genitore in bottega.
Nel 1876, Pàvel Egoròvič fallisce ed è costretto a trasferirsi con la famiglia a Mosca per sfuggire ai creditori, mentre Čechov, allora sedicenne, rimane altri tre anni a Taganròg per finire la scuola e si mantiene dando ripetizioni ai compagni più giovani. Sin da ragazzo, manifesta una naturale disposizione all’allegria, allo scherzo e al gioco mimico. Ecco cosa scrive Thomas Mann: «In questi scherzi si esprime il fondamento primitivo, mimetico dell’arte, il talento, il piacere e l’abilità ciarlatanesca di divertire, che un giorno dovrà por mano a mezzi del tutto diversi, riversarsi in forme completamente nuove, unirsi con elementi spirituali, nobilitarsi moralmente, dal puro divertimento elevarsi alla commozione, ma conservando sempre, anche nella più profonda e amara serietà, il senso del comico» (Saggio su Čechov, in “Racconti e teatro”, Sansoni Editore, 1966, Firenze, p. XX).
Nel 1879, ottenuta la maturità classica, Čechov raggiunge la famiglia a Mosca e s’iscrive alla Facoltà di Medicina, cui si dedica con zelo. Si manifestano i primi segni della tubercolosi, la malattia che lo porterà a una morte prematura.
A partire dal 1880, per mantenersi agli studi e contribuire a sostenere i genitori e i fratelli più giovani, comincia a scrivere brevi racconti umoristici, venduti per poche lire a mediocri riviste moscovite, e in pochi anni ne porta a termine più di trecento. È importante rilevare che, a poco a poco e al di là dell’intenzione dell’artista, in quegli articoletti cominciano a intravedersi note critiche e accenti sofferti nei confronti della società, insieme al desiderio di una vita più libera e più umana.
Nel 1884, finita l’Università, fa pratica nell’ospedale distrettuale di Voskresènsk e continua a dedicarsi alla letteratura umoristica: pubblica la sua prima raccolta, “Le fiabe di Melpomene”, espressione limpida e spontanea della sua volontà di divertire.
Nel 1886, l’editore Suvorin gli chiede di collaborare alla rivista “Nòvoe Vremja” (“Tempo nuovo”), dove Čechov ottiene un posto preminente nel supplemento letterario settimanale. In tal modo ha la possibilità di dedicarsi realmente alla letteratura: esce la seconda raccolta, “Racconti variopinti”. Da Pietroburgo gli giungono le parole elogiative di Dmitrij Vasìlevič Grigorovic, scrittore e critico letterario, il quale lo incita a dedicare le sue energie e il suo straordinario talento per prove più rigorose: per il giovane Čechov, che fino a quel giorno aveva sempre guardato con scarsa attenzione alle proprie doti artistiche, la lettera del noto e anziano scrittore costituisce un avvenimento importantissimo, commovente, decisivo.
Nel 1887, pubblica la terza e la quarta raccolta, rispettivamente intitolate “Nel crepuscolo” e “Discorsi innocui” e, nel 1888, dopo il clamoroso successo della novella “La steppa” , riceve il premio Puškin dall’Accademia delle Scienze.
Per Čechov, la passione per la letteratura e la vicinanza concreta al dolore dell’uomo (unitamente al suo amore per il lavoro) sono un tutt’uno, si nutrono reciprocamente. A fianco dell’attività artistica, opera instancabilmente nella sua funzione di medico, nell’ospedale di campagna di Čikin, vicino a Voskresènk, e nell’ospedale del distretto di Zvenìgorod, presso Mosca.
Nel 1890, attraversata faticosamente (e pericolosamente per la sua salute già precaria) tutta la Siberia, visita una colonia penale nella lontana isola di Sachalìn, per compiere un’inchiesta sulla vita nei penitenziari; nel volgere di pochi anni, lo scalpore sollevato da questo viaggio e l’accurata indagine provocheranno importanti riforme del sistema carcerario. Nel 1892, a Melichovo, nella sua piccola proprietà, Čechov conduce una significativa lotta contro il colera e si prodiga tra gli ammalati; in seguito farà di tutto per migliorare le condizioni dei contadini, e parteciperà attivamente alle iniziative per la diffusione dell’istruzione tra il popolo.
Nel 1892 inizia la collaborazione ad un’altra importante rivista, “Rùsskaja Mysl” (Il pensiero russo) con “La corsia n.6”.
Dopo il 1897, l’aggravarsi della tubercolosi lo costringe a passare lunghi periodi in località climatiche russe ed estere. Nel frattempo, come già avvenuto per i racconti, le sue opere teatrali incontrano un crescente successo.
Dopo aver scritto alcuni atti unici, scherzi o vaudeville (genere teatrale con il quale in modo umoristico e colorito si rappresentano le contraddizioni e le debolezze che da sempre caratterizzano l’uomo), e un dramma borghese, “Ivanov” (1887), ha inizio con “Il Gabbiano” (1896) la fase matura e rilevante del teatro cechoviano: messo in scena da attori scadenti, il dramma è un insuccesso clamoroso, ma due anni più tardi, l’attore e regista Konstantin Sergeevič Stanislavskij, fondatore con Vladimir Nemirovič-Dančenko del Teatro d’arte di Mosca, riprenderà l’opera con grande intelligenza, e sarà un successo trionfale. Conosce l’attrice Ol’ga Leonàrdovna Knipper, che nel 1901 diventerà sua moglie.
Successivamente, sempre al Teatro d’arte, avrà luogo la prima rappresentazione di altri tre capolavori: “Zio Vanja” (1899); “Le tre sorelle” (1901), dove Ol’ga Leonàrdovna Knipper sostiene la parte di Maša; “Il giardino dei ciliegi” (1903). La redazione della raccolta delle Opere per l’edizione Marks (1899), un corpus organico di duecentoquaranta racconti e dodici opere teatrali, rimarrà fondamentale per lunghi anni.
Nel 1900, è nominato membro onorario dell’Accademia delle Scienze di Pietroburgo, nella Sezione Letteraria; tuttavia, due anni più tardi, quando la scelta di Gor’kij, poeta proletario, verrà bocciata dal Governo per i suoi sentimenti radicali, egli, in segno di protesta, darà le dimissioni.
Gli ultimi anni della sua vita, trascorsi a Jalta, nel clima secco della Crimea (dove nel 1898 aveva acquistato un terreno e costruito un villino per curare la salute), rappresentano un tempo particolarmente gratificante: per il matrimonio con Ol’ga, per l’amicizia con Gor’kij, per il dignitoso rapporto con Lev Nikolaevič Tolstòj (avviato nel 1895), per la vicinanza del Teatro d’arte che va a trovarlo per recitargli i suoi lavori.
Per quanto concerne la trama delle sue opere, Čechov rappresenta con forte realismo e intensa partecipazione esistenze spesso insignificanti di persone segnate dalle difficoltà della vita, rassegnate al proprio destino di “immobilismo”, incapaci di comunicare con i propri simili e di reagire per migliorare le proprie condizioni di vita.
Con leggerezza di tocco e di colore, descrive la miseria, la mediocrità e le terribili condizioni sociali della Russia zarista tra il XIX e il XX secolo e, nello stesso tempo, pur rinunciando all’opera monumentale e grandiosa, riesce a comporre il quadro eterno e immenso della comune condizione umana, con i suoi inevitabili mali: donde, come riscatto e unico rimedio, «l’urgenza di vivere secondo leggi del tutto opposte e complementari, secondo cioè quella rischiosa “follia d’amore” che l’uomo di continuo si adopera a soffocare in se stesso e negli altri» (Cristina Campo, Op. cit., p. 193).
Quanto più la sua fine si avvicina, tanto più il suo sguardo sul futuro si apre alla speranza in una società più umana, più fraterna, più libera; inattuata ma possibile, come traspare dagli ultimi racconti, fra cui ricordiamo “Un caso della pratica medica” (1898) e “La fidanzata” (1903).
Nel 1904 le condizioni di Čechov peggiorano: si reca a Badenweiler (località termale tedesca) dove muore nella notte tra l’1 e il 2 luglio. Verrà sepolto a Mosca, nel cimitero del Monastero delle Vergini.
Per lo stile particolare e inimitabile della sua produzione, nella quale liricità, umorismo, satira e drammaticità si conciliano con rara maestria; per il suo teatro intimo e “d’atmosfera”, fondato cioè sulle pause, sui silenzi, sulla rappresentazione di stati d’animo, più che sui fatti; per l’essenzialità dei racconti, che, per “virtù del genio”, riescono a «contenere l’intera pienezza della vita» (Thomas Mann, Op. cit., p. XVII), l’opera di Čechov è considerata quanto di più bello e creativo vi sia nella letteratura europea.