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E’ questo il punto centrale della riflessione di Sergio Manna, pastore valdese e responsabile dei corsi che, nell’ambito della Chiesa Evangelica Valdese, preparano i cappellani clinici alla cura pastorale dei malati, dei morenti, dei loro familiari e del personale medico ed infermieristico.
Vuoi precisarci in cosa consiste questo aspetto particolare del tuo ministero?
Si tratta di formare le persone all’esercizio della “cura d’anime”, altrimenti detta “cura pastorale”. Questo avviene a due livelli: a) formazione dei pastori in vista dell’esercizio del loro ministero, con particolare attenzione ai giovani che entrano nel ministero pastorale al termine dei loro studi presso la Facoltà di teologia; b) fornire strumenti ai membri di chiesa che esercitano un ministero di cura pastorale con visite presso le persone ammalate o gli anziani in modo che sappiano affrontare il loro compito con maggiore efficacia.
Dove hai ricevuto la formazione necessaria?
Ho frequentato corsi specifici di “Clinical Pastoral Education” (CPE) a New York a partire dall’anno 2000, e successivamente ho approfondito gli studi fino al conseguimento del diploma di Supervisore. I corsi di CPE, negli Stati Uniti, durano tre mesi e si svolgono in strutture ospedaliere. Oltre alla formazione teorica si basano molto sul tirocini pratici, nei quali si ha modo di esercitare quotidianamente la cura pastorale sotto la supervisione di esperti. E’ così che ho ricevuto una formazione adeguata per comprendere come va impostato il rapporto con le persone malate o, nei casi più gravi, al termine della vita (ma anche il rapporto con i loro familiari). Bisogna lavorare molto su se stessi, sui punti di forza così come su quelli di debolezza del proprio approccio pastorale. Bisogna imparare a sottoporre la propria teologia al vaglio della prassi, cercare di incarnarla nella situazione concreta della persona che incontriamo. L’eventuale scelta di un testo biblico da leggere al paziente, o di una preghiera da pronunciare, deve nascere da un genuino ascolto della persona, da una relazione empatica. Solo così la cura pastorale può assumere una funzione terapeutica.
Come è nato questo approccio particolare alla cura d’anime?
E’ interessante notare che è frutto dell’esperienza di un pastore presbiteriano americano, Anton Theophilus Boisen, che, negli anni Venti del secolo scorso, ricoverato in cliniche psichiatriche per episodi psicotici, aveva sperimentato personalmente come la cura pastorale tradizionale non gli fosse di alcun beneficio. Le visite pastorali che riceveva, pur essendo mosse dalle migliori intenzioni, non toccavano affatto la sua persona. I pastori che lo visitavano, nonostante facessero riferimento alla Scrittura e offrissero la preghiera, restavano come estranei. Una volta guarito Boisen si pose il compito di ripensare la formazione dei pastori in modo più efficace. A suo giudizio, chi usciva dalle facoltà teologiche avendo imparato a leggere e interpretare dei testi (la Bibbia innanzitutto), doveva anche imparare a leggere il “documento umano vivente” (the living human document), cioè la persona concreta cui, di volta in volta, si era chiamati ad annunciare l’evangelo e offrire cura pastorale. Fu così che vennero gettate le basi di quello che poi è divenuto il movimento che ha dato vita alla “Clinical Pastoral Education”.
Partendo dalla sua e dalla tua esperienza in che cosa si può caratterizzare un atteggiamento pastoralmente efficace?
Elemento fondamentale mi sembra essere la capacità di superare quel diaframma trasparente che naturalmente ci separa dall’altra persona. Questo implica una capacità nostra di attenzione, di ascolto, di riconoscimento delle emozioni e dei sentimenti della persona che ci sta di fronte: un ascolto empatico ci permette di entrare nel mondo di colui o colei che incontriamo, ci offre la possibilità di coglierne le attese, le ansie, le speranze. La persona è in grado di comprende se siamo veramente interessati a lei e decide, di conseguenza, se parlarci o meno dei suoi problemi.
Quale ti sembra essere la situazione odierna delle persone che ci circondano? Quali le loro esigenze e le loro attese?
Quello che io sento intorno a me, che sentiamo tutti, è un grande, smisurato, bisogno di consolazione, dietro il quale si cela, naturalmente, un altrettanto grande bisogno di ascolto. Ci sono tre bisogni umani e spirituali che potremmo definire universali: 1) il bisogno di autostima, 2) il bisogno di amare e essere amati, 3) il bisogno di senso e scopo nella vita. Questi sono ambiti rispetto ai quali una cura pastorale competente può essere in grado di dare delle risposte. Quando esercitiamo adeguatamente il servizio dell’ascolto e della “cura d’anime” possiamo accorgerci di come sia possibile rafforzare la consapevolezza e l’autostima delle persone, trasformare le chiese in luoghi di comunione capaci di rompere l’isolamento in cui si vive oggi, aiutare le persone che Dio mette sul nostro cammino ad aprire lo sguardo su una dimensione di trascendenza.