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La visita ai malati nella Bibbia – Seconda parte

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27/05/2009

Luciano Manicardi
Monaco di Bose

Guida alla lettura

Pubblichiamo oggi la seconda parte della riflessione di Luciano Manicardi sul tema della visita al malato nella Bibbia: nella prima parte, l’Autore ha analizzato alcuni passi fondamentali del libro di Giobbe; ora commenta brani tratti dai Salmi, dal libro del Siracide e dal Nuovo Testamento.
Dal Salmo 41 emerge come colui che si prende cura del malato sia da considerarsi beato. Ma la densità semantica dell’ebraico biblico ci invita, come sempre, a non fermarci al primo e immediato significato delle parole: il termine che indica la beatitudine, infatti, è apparentato con una radice che allude al “cammino”. Beato, quindi, non è tanto, o prima di tutto, sinonimo di “felice”: piuttosto, ci dice come il cammino stesso della vita, pur nelle sue difficoltà talora estreme, rappresenti di per sé una condizione bella e piena, perché tesa alla compiuta realizzazione delle nostre potenzialità. Ma, come in ogni cammino, anche in questo si può smarrire la strada. E infatti, subito dopo, quasi a dissuaderci da letture irenistiche di questo peculiare stato di beatitudine, il salmista scatena la propria collera contro coloro che, venendolo a trovare e credendo di operare per il suo bene, lo illudono con parole vane, con frasi fatte e falsamente ottimistiche, ma che – una volta lasciatolo – non hanno timore né pudore di parlare con i conoscenti della natura letale della sua malattia: «L’ha colpito un male incurabile, non si alzerà più dal letto in cui giace». Un esempio di quella falsa “pietà” assai diffusa anche nella nostra epoca (“Ti vedo meglio”, “Vedrai che fra poco ti mandano a casa”), e di cui occorre tenere conto se si vuole davvero fare della solidarietà un’occasione di aiuto al sofferente, e non un feticcio al servizio del proprio bisogno di sentirsi buoni.
L’assistenza al malato richiede invece compassione vera e anche intelligenza (aspetto, questo, non sempre tenuto in considerazione, presi come si è dalla retorica della “buona volontà”), è pratica concreta del comando di amare il prossimo, e – in questo senso – non solo attitudine etica, ma anche «gesto rivelatore, che sta nello spazio dell’imitazione di Dio», che si dà pensiero di tutte le sue creature: un’idea sviluppata dalla tradizione rabbinica, e portata a pieno compimento dal concetto-prassi della sequela di Gesù, colui che per eccellenza si prende cura degli altri e dunque invita noi a fare altrettanto, facendo di tale emulazione l’unico criterio del giudizio che ci attende dopo la morte (Vangelo di Matteo 25,31-46). Anche se poi, come Manicardi giustamente sottolinea, l’aspetto veramente «innovativo e sconcertante» è che, nello straordinario passo di Matteo, in realtà Cristo – medico e salvatore per antonomasia – si identifica con il malato, non con chi lo visita o lo cura, conferendo così a chi soffre una dignità umana e una forza rivelativa del volto di Dio mai neppure immaginate nei millenni precedenti, e mai più superate dal pensiero teologico e filosofico dei secoli successivi.
I Salmi
Il Salterio presenta spesso preghiere di malati. In particolare, ci pone di fronte al problema dei “nemici del malato”. Il Salmo che più da vicino ci interessa è il Sal 41, che parla di persone che vanno a visitare un malato e della reazione del malato di fronte ai visitatori.

Il Salmo inizia proclamando la beatitudine di colui che si prende cura del malato: il Signore lo proteggerà quando quegli a sua volta si troverà nel bisogno e nella malattia:
«Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore;
gli darai sollievo nella sua malattia»
(Sal 41,4).
Il v. 4b, incerto testualmente, potrebbe anche essere inteso: «Gli rifai il letto in cui egli languisce», il che presenterebbe la sorprendente immagine di un Dio che accudisce il malato come un infermiere. Tuttavia il testo è oscuro e molti sono i tentativi di correzione: «Sul suo letto lo fortifica nella malattia» (B. Duhm); «Tutta la sua sofferenza tu la cambi in forza» (H. Gunkel); e infine, liberamente: «Il suo letto d’agonia, tu lo hai trasfigurato» (M. Mannati) [1].

Nei vv. 5-10 si trova il lamento del malato circa i conoscenti e i visitatori che lo vengono a trovare, ma che egli sente come suoi nemici. Infine, nei vv. 11-13, ci sono le parole di supplica e di speranza nel Signore da parte del malato e le sue richieste contro i nemici. Il v. 14 costituisce la dossologia conclusiva del I libro dei Salmi (Sal 1-41) e non fa parte del corpo originario del Salmo.

Secondo Sal 41,6-10 i nemici del malato sono coloro che ritengono mortale la sua malattia, che già condannano e non lasciano speranza a colui che sta lottando; sono coloro che attendono solo la fine del malato:
«Chi viene a visitarmi dice parole false,
raccoglie cattiverie nel suo cuore
e, uscito, sparla nelle piazze.
Contro di me mormorano i miei nemici:
“L’ha colpito un male incurabile,
non si alzerà più dal letto in cui giace”»
(Sal 41,6-9).
Agli occhi del malato essi dicono il falso: forse si tratta delle parole di circostanza, inconsistenti, vuote, permeate da falso ottimismo, vacuamente rassicuranti che pronunciano davanti a lui, quando lo vanno a trovare, mentre fuori, nelle piazze, con le altre persone dicono tutt’altro circa la situazione del malato. O almeno il malato intuisce, sospetta questa doppiezza. Il malato si sente oggetto di discorso, in balia di altri: il suo dolore e il suo dramma restano estranei agli altri.

Esperienza frequente del Salmista è che, nella malattia, vicini e conoscenti si fanno lontani (Sal 38,12: «Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza»). Il malato invece abbisogna di compassione (Sal 35,13: «Io, quand’erano malati, vestivo di sacco, mi affliggevo col digiuno, riecheggiava nel mio petto la mia preghiera») e di intelligenza da parte di chi lo visita (il testo ebraico di Sal 41,2 può essere tradotto: «Beato chi ha intelligenza [o: chi discerne] del povero [o: debole]»). Infatti, il declino delle forze, l’impotenza, la distanza incolmabile fra il malato e i sani, può produrre in lui la tentazione di rendere gli altri responsabili del suo male. E nella malattia si manifestano le alterazioni psichiche, gli squilibri, le turbe che accompagnano il malato nel suo calvario e che inficiano i rapporti con il suo ambiente.

Un versetto del libro del Siracide


Dice il passo di Sir 7,35:
«Non esitare (o: non essere negligente) nel visitare gli ammalati,
perché per questo sarai amato»
.
Il testo significa che, visitando il malato, l’uomo mette in pratica il comando di amare il prossimo (Lv 19,18) ed è a sua volta riamato (Sir 7,35b). Questo testo è piuttosto recente, deuterocanonico, e va situato nel momento iniziale di quella tradizione giudaica delle opere di misericordia (la “ghemilut chasadim”) di cui vi è qualche traccia anche nel libro di Tobia (anch’esso deuterocanonico), che si svilupperà compiutamente nel rabbinismo e di cui abbiamo eco nelle opere di misericordia menzionate nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo.

«Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,31-46)

La scena contenuta in Mt 25,31-46 presenta una serie di sei opere di misericordia – dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete, ospitare i forestieri, vestire chi è nudo, visitare chi è malato, andare a trovare chi si trova in carcere – in base alle quali avverrà il giudizio finale. Nel giudaismo del I sec. d.C., e poi nel rabbinismo, tali opere di misericordia saranno codificate e considerate non solo come prescrizioni etiche, ma come gesti rivelatori, che stanno nello spazio dell’imitazione di Dio (“imitatio Dei”). Si dice in un trattato del Talmud Babilonese:
«Rabbi Chama’ bar Chanina’ dice: “Voi seguirete il Signore vostro Dio” (Dt 13,5). Può un uomo seguire veramente Dio, quando nello stesso libro è detto che il Signore tuo Dio è un fuoco che consuma? Ma ciò significa che si deve seguire la condotta di Dio. Come Dio ha vestito quelli che erano nudi (Adamo e Eva), vesti anche tu quelli che sono nudi; come Dio ha visitato gli ammalati (Abramo), [2] tu pure visita gli ammalati; come Dio ha consolato gli afflitti Isacco) [3], consola anche tu gli afflitti; come Dio ha seppellito i morti (Mosè) [4], tu pure seppellisci i morti» (b. Sotà 14a). [5]
Nella letteratura post-biblica è sentito come particolarmente urgente e fondamentale il compito di visitare i malati. Ha detto Rabbi Aqiba (morto nel 135 d. C.): «Se qualcuno non visita un malato, è come se versasse sangue» (b. Nedarim 40a) [6]; e ancora: «Chi visita un malato gli toglie un sessantesimo del suo dolore» (b. Nedarim 39b). In questi testi giudaici si sottolinea l’importanza del pregare con il malato quando lo si visita.

Il testo di Mt 25,31-46 risente certamente del radicamento nella sensibilità e nel contesto giudaico, ma l’aspetto veramente innovativo e sconcertante che esso presenta è che il Giudice, il Cristo veniente nella gloria alla fine dei tempi, il Re davanti a cui saranno radunate tutte le genti, si identifica con il malato. Questo sorprende tutti i chiamati in giudizio, sia quelli che erano convinti di averlo servito e visitato sia quelli che non avevano alcuna coscienza di aver fatto ciò. Dunque il Cristo si identifica con il malato, e non con il visitatore, come magari ci si potrebbe aspettare. Questo implica almeno due conseguenze:
1) occorre riconoscere al malato la piena dignità di persona: egli è una persona, prima di essere un malato;
2) in un’ottica cristiana, si deve riconoscere una sacramentalità cristica al malato: il malato è presenza di Cristo.

Apostoli e chiesa primitiva

Sono soprattutto gli Atti degli Apostoli che parlano dell’attività di incontro con i malati e di guarigioni ad opera degli apostoli (At 9,32-35; At 9,36-46). Particolarmente importante il testo di At 28,7-10, in cui Luca narra di quando Paolo fu accolto, nell’isola di Malta, in casa di un certo Publio:
«Avvenne che il padre di Publio dovette mettersi a letto colpito da febbri e da dissenteria; Paolo l’andò a visitare e dopo aver pregato gli impose le mani e lo guarì».
Il testo presenta una significativa struttura così articolata: “visita – preghiera – imposizione delle mani”, struttura che si ritrova in un importante passaggio della lettera di Giacomo:
«Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15).
Qui la struttura è “visita – preghiera – unzione con olio”. D’altra parte, è possibile che l’espressione “pregare su...” implichi anche l’imposizione delle mani sul malato, che così accompagnerebbe l’altro gesto dell’unzione. Così almeno ha compreso Origene e così è attestato nel più antico rituale ambrosiano. Dal testo traspare che la preghiera è prioritaria sul gesto dell’unzione e che la guarigione è posta in relazione con il perdono dei peccati. Emerge inoltre la dimensione ecclesiale della visita al malato: essa va considerata non tanto come opera isolata, evento individuale, ma deve essere inserita in un coerente atteggiamento di fondo in cui «io» vivo «grazie all’altro» e «per l’altro».


Come gli incontri di Gesù con malati si collocano nel quadro della sua “pro-esistenza”, così al credente è chiesto di vivere non per sé, ma per gli altri, con gli altri, grazie agli altri, soprattutto coloro che sono nel bisogno. Il samaritano che prova compassione dell’uomo ferito ai bordi della strada (Luca 10,33), Gesù che prova compassione davanti al lebbroso (Marco 1,41), mostrano i segni di una compassione che è fondamentale per stabilire un punto di contatto con il malato [I]. E che è l’ambito al cui interno può avvenire l’annuncio. Il visitare i malati può così essere accostato all’atteggiamento espresso in questi termini da Giacomo: «Davanti a Dio, il Padre, culto puro e senza macchia è questo: visitare le vedove e gli orfani nella loro sventura» (Gc 1,27). Ed è attitudine connessa al fatto che in quel corpo che è la comunità cristiana, tutte le membra sono bisognose le une delle altre, specialmente delle più deboli (1Cor 12,12-27). Pertanto non stupisce certo che un antichissimo testo cristiano associ la visita al malato a quella alla vedova, all’orfano e al povero: «I presbiteri … visitino tutti i malati, senza trascurare la vedova, l’orfano e il povero» (Policarpo di Smirne, Seconda lettera ai Filippesi VI,1).

Note dell'autore

1) Bernard Duhm, Die Psalmen (II Auflage), J.B.C. Mohr, Freiburg i. B., 1922 – Hermann Gunkel, Die Psalmen, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1986 (Sechste Auflage), pp. 172-175 (I edizione: 1929) – Marina Mannati, Les Psaumes, vol. II, Desclée de Brouwer (Cahiers de la Pierre-qui-vire), Bruges 1967, pp. 80-82.
2) Quando Abramo ha ricevuto la visita di Dio alle querce di Mamre (Gen 18,1-15) soffriva ancora per la circoncisione appena ricevuta (Gen 17,23-27).
3) Il riferimento è a Gen 24,67: «Isacco trovò conforto dopo la morte della madre».
4) Il riferimento è a Dt 34,5-6: « Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l’ordine del Signore. Fu sepolto nella valle, nel paese di Moab, di fronte a Bet-Peor; nessuno fino ad oggi ha saputo dove sia la sua tomba».
5) Il trattato Sotà (“b.” significa “Babilonese”) si può trovare in Lazarus Goldschmidt, Der Babylonische Talmud, Sechster Band, Jüdischer Verlag 1981, pp. 3-185.
6) Il trattato Nedarim si può trovare in Lazarus Goldschmidt, Der Babylonische Talmud, Fünfter Band, Jüdischer Verlag 1981, pp. 369-540.

Note della redazione

I) Il moto di compassione di cui parlano Luca e Marco è così profondo da essere espresso, in entrambi i casi, con il verbo greco “splagchnízō”, che etimologicamente significa “sentirsi divorare le viscere”.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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