Era un giorno di primavera, un giorno come tanti: ci si sveglia, ci si prepara per uscire, si fa colazione e i pensieri corrono agli impegni quotidiani. Quel giorno ero felice: dovevo andare a Milano (abito nelle vicinanze di Varese) per frequentare un corso di aggiornamento molto interessante.
Però, giunta a Milano, all’uscita della metropolitana mi contattarono per avvisarmi che mia madre era stata portata d’urgenza in pronto soccorso in gravi condizioni.
Mi precipitai nuovamente in stazione, ma il treno per la mia città era appena partito (lo vidi allontanarsi sui binari) e, purtroppo, constatai che il successivo sarebbe partito soltanto un’ora più tardi! Non avevo tempo da perdere, per cui presi un taxi e dopo un’ora (c’era molto traffico) riuscii a raggiungere il pronto soccorso in cui si trovava mia madre.
Mi precipitai allo sportello dell’accettazione e lì mi dissero di attendere. I minuti passavano, troppi minuti... Chiesi nuovamente notizie, ma la risposta fu la stessa: “La stanno visitando, verrà chiamata appena finiscono”.
Passarono altri minuti, poi un’ora... A una nuova mia richiesta, la stessa risposta.
A quel punto, persi la pazienza e mi precipitai ad aprire la porta del pronto soccorso, gridando la mia disperazione: “Voglio sapere che cos’ha mia madre! Mi sono precipitata qui da Milano, con un taxi, per non perdere neanche un minuto... Non potete tenermi fuori da questa porta per un’ora e più senza che io sappia nulla, senza vederla e parlarle!”.
Il medico di turno (una donna), comprendendo il mio stato d’animo e la mia esasperazione, mi spiegò di cosa si trattava: non c’era più nulla da fare. Stavano aspettando la visita del geriatra che avrebbe confermato la diagnosi. Grazie alla sensibilità di quel medico, ottenni la possibilità di poter vedere la mamma e, protetta da una tenda tesa attorno al letto, di rimanerle accanto uscendo dalla sala solo in situazioni di emergenza particolari.
Mia madre, ormai in fin di vita, era ancora cosciente. Mi riconobbe e poté sentire le mie parole d’affetto e di conforto. Anche se con tanta paura e angoscia, l’accarezzavo e la rassicuravo. Infine entrò in coma, irreversibile.
Purtroppo però, al cambio di turno del pronto soccorso, il personale subentrato, nonostante le mie suppliche e le mie lacrime, non mi permise di rimanere accanto alla mamma. Era strano vedere una persona morente in un letto di ospedale, riempita di cannule, sorvegliata soltanto da macchine, senza che l’affetto dei familiari potesse accompagnarla in un momento così delicato della vita.
La mamma morì la mattina presto del giorno seguente.
Ho pensato tanto a questa contraddizione a cui l’uomo, nella società di oggi, deve sottostare: essere curato con terapie d’avanguardia dal punto di vista medico, ma morire in una stanza fredda e vuota, in compagnia soltanto del suono di macchinari ospedalieri.
Un anno dopo, a seguito di un grave incidente stradale, provai una sensazione di morte imminente e proprio in quel momento, insieme ai mille altri pensieri che, non si sa come, scorrono in quei secondi nella nostra mente, avvertii l’impellente bisogno di avere accanto mio marito...
Questo per dire che è sì importante apportare soccorso e somministrare cure mediche alle persone, ma che è altrettanto importante, e forse ancor più decisivo, aprire le porte dei reparti di pronto soccorso e delle corsie di ospedale ai parenti e agli amici per permettere loro, in quei momenti di dolore e angoscia, di stare accanto ai propri cari e accompagnarli durante il viaggio doloroso e misterioso che li porta via da questa vita terrena.
L’uomo non è soltanto un insieme di organi ma è anche un complesso di emozioni che si curano non solo con i farmaci ma anche, e soprattutto, con l’affetto!
Maddalena D.