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Tornare a Leopoli

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Tornare a Leopoli
13/03/2022

10 settembre 2008
Tratto da: Adam Zagajewski, Tradimento, Adelphi Edizioni, Milano 2007, p. 24-26

Guida alla lettura

Quella di Leopoli – città fondata nella metà del XIII secolo – è una storia solcata da splendore e grandi sofferenze, come spesso accade per le terre di frontiera contese da stati e popoli diversi. Conquistata dai polacchi nel 1340, rimase sotto l’autorità della Polonia fino al 1772, anno in cui passò nelle mani degli Asburgo e divenne capitale della provincia della Galizia. Nel 1919 fu riunita alla Polonia, ricostituitasi come stato indipendente dopo la Grande Guerra. Nel 1939, subito dopo l’inizio della secondo conflitto mondiale, le truppe sovietiche invasero la città, come previsto dall’accordo Molotov-Ribbentrop. Più tardi, l’esercito tedesco, rompendo il patto, la occupò per quattro anni.
Nel 1945 Leopoli venne annessa all’Unione Sovietica, ed entrò a far parte della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina. La popolazione polacca fu espulsa, e andò in parte a Gliwice, cupa cittadina industriale dell’Alta Slesia, sottratta alla Germania e assegnata alla Polonia. Leopoli fu ripopolata con cittadini ucraini e russi, e il suo splendido centro storico venne successivamente proclamato “patrimonio dell’umanità”.
La deportazione della popolazione polacca è narrata nel libro “Tradimento”, del poeta polacco Adam Zagajewski, di cui proponiamo una pagina intensa e dolente. In questo tempo di nuovi conflitti di confine – pensiamo al Caucaso – la dedichiamo a tutti coloro che, in nome di una ragion di stato disumana, soffrono la perdita della propria terra e del proprio passato.

Il testo

I nuovi abitanti di Gliwice sembravano europei, ma solo in apparenza. Si trattava per buona parte di deportati dall’Est. Erano emigrati di recente sì, ma non erano stati loro a lasciare il Paese, era il Paese che si era trasferito a ovest. E loro con lui. In secondo luogo, quasi tutti avrebbero potuto anteporre il prefisso “ex” alla propria occupazione, vocazione o esistenza. Erano tutti ex giudici, ex ufficiali, ex professori (per non parlare degli ex bambini), privati delle loro carriere da quel nuovo regime che sottoponeva a severo scrutinio il passato di ciascun cittadino (se mai ne aveva uno; ma perfino i più poveri potevano dire di aver avuto un qualche passato).
Prendiamo, per esempio, il mercato delle erbe di via Bytomska: d’inverno le venditrici, infagottate in giubbe pesanti, maglie, pastrani di montone e guanti di lana da cui uscivano dita rosse e congelate, avevano tutte un cantilenante accento orientale. Ad alcuni clienti riservavano saluti di particolare cortesia: «signor dottore» dicevano a un vecchietto con indosso una frusta pelliccia d’anteguerra, «signor avvocato» a un alto vegliardo aggrappato al braccio della figlia di mezza età. «Oggi il signor professore desidera uova o un’aletta di pollo?» chiedeva un’altra venditrice a un signore anziano duro d’orecchio che non poteva, perciò, ricambiare tanta gentilezza. Del resto la venditrice lo sapeva bene e non sperava affatto in una risposta, tanto più che la sua cortesia era disinteressata e solo in parte scaturiva dal momento presente. Infatti l’altra metà del saluto veleggiava indietro nel passato, arretrando di una decina d’anni, rivolto a quello stesso professore – assai più giovane – che faceva i propri acquisti in un altro mercato, in un’altra città, in un’altra epoca e in un’altra valuta. Le persone al mercato di via Bytomska erano reali e attuali solo in parte; semmai più simili a ombre. Ombre vive, emigrati in casa propria, ex professori di un’università che non esisteva più, ex ufficiali di un esercito che non c’era più, con l’accento di un Est ormai scomparso, ex avvocati, ex consiglieri, ex funzionari con cariche di un’altra era e pastrani rivoltati per la seconda volta, scarpe di pelle di prima della guerra e cappelli stinti con le etichette di manifatture ormai chiuse da tempo.
Soltanto le uova, i pomodori e le ciliegie erano normali, reali, ovvi e palpabili.
All’epoca i miei genitori appartenevano alla generazione più giovane, perciò non dovettero cambiarsi d’abito, o forse lo fecero soltanto in misura minima, inevitabile. Tuttavia quegli esuli che erano giunti a Gliwice al termine delle loro peregrinazioni, dunque già avanti con gli anni, non avevano più la forza di mutare alcunché nel loro modo di vestire, parlare o ragionare. Si portavano dietro il passato come una scia di naftalina. Abiti fuori moda, giacchette estive a manica corta, pieghe impresse per l’eternità su pantaloni di fil-à-fil, scarpe di vent’anni prima; e indossandole camminavano con grande cautela per non sciupare le suole, per non graffiare la pelle. Passeggiavano per i viali del parco, riposavano all’ombra di faggi e ippocastani postedeschi, professori e avvocati, calzolai e uscieri, impiegati e tranvieri. Si annoiavano, tiravano avanti con pensioni striminzite, e quindi vagavano per la città calcando dignitosamente l’acciottolato postgermanico.
Non capivo che quel vagare era un lento morire. Camminavano per strada e osservavano stupiti i mattoni prussiani degli edifici. Erano assorti nel proprio morire e sorpresi dalla città in cui avrebbero dovuto farlo. Morivano con sospetto: non li conoscevano bene, quel luogo, quell’aria, quella terra. Alcuni s’affrettavano, altri, al contrario, tentavano di rimandare la morte in modo da poter prima osservare i dintorni, imparare a conoscerne gli alberi e le erbe, ad amarne la terra.
Perdevano la memoria. In genere per ragioni biologiche, a causa della vecchiaia. Alcuni, tuttavia, sembravano bramare sclerosi e amnesie e sceglievano di vivere in una nebbia che fondeva epoche, date e persone. Anche nella mia famiglia alcuni anziani persero pian piano la memoria: entrambe le mie nonne e mio nonno. Li accompagnavo nelle passeggiate, a braccetto, spiegavo dove fossimo e dove stessimo andando. Io che non sapevo ancora nulla mettevo la mia memoria al loro servizio. E quei nonni, che tanto avrebbero potuto raccontarmi di una lunga vita, non erano in grado di chiamare a raccolta le idee.
Perdendo la memoria tornavano a una città perduta. Paradossalmente, perdendo la memoria la recuperavano, poiché, com’è noto, in età avanzata la perdita della memoria altro non è se non la perdita del controllo sugli strati più recenti del ricordo e il ritorno a quelli più lontani, che nulla può sradicare. Tornavano a Leopoli.

Biografia

Adam Zagajewski è nato a Leopoli nel 1945 ed è, con Wisława Szymborska, il maggiore poeta polacco della nostra epoca. Vive attualmente fra Cracovia e gli Stati Uniti, dove insegna letteratura all’Università di Chicago. Il suo poema “Try To Praise The Mutilated World”, pubblicato dalla rivista letteraria “The New Yorker”, è divenuto famoso dopo l’11 settembre.
“Tradimento” è stato pubblicato per la prima volta nel 1991. Nel racconto d’apertura, “Due città”, traspare una struggente nostalgia per la città natale. Dice il risguardo del volume:
«Ha detto Miłosz che a scrivere versi non è l’abilità della mano, ma “il cielo, a noi caro ancorché scuro, / qual videro i genitori e i genitori dei genitori / e i genitori di quei genitori / nel tempo che fu”. Per Adam Zagajewski – voce sommessa sullo sfondo delle immense devastazioni di un secolo osceno – quel cielo è Leopoli».
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