Guida alla lettura
Questa prima testimonianza ci porta nel campo di concentramento di Auschwitz. Ci parla di un bambino, Hurbinek, "figlio della morte", paralizzato e muto. Ma ci racconta anche della delicata dedizione di un ragazzo di quindici anni, Henek, che attraverso le cure quotidiane e una comunicazione costante, capace di non sottrarsi all'intimità dell'anima e del corpo, porta Hurbinek alle soglie del miracolo: una prima parola articolata.
Il campo di Auschwitz sarà occupato dalle truppe sovietiche il 27 gennaio 1945, ma Hurbinek non sopravviverà a lungo a questo evento: morirà "libero ma non redento", i primi di marzo.
Dedichiamo questa pagina a tutti coloro che, con coraggio e fatica, aiutano ogni giorno chi si trova nella sofferenza.
Era paralizzato dalle reni in giù, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo.
La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno più che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma sfuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente.
Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata; o meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavamo in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morì ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
Biografia
Nel 1943 si inserisce in un nucleo partigiano operante in Val d'Aosta. Dopo poco, nel dicembre 1943, viene arrestato dalla milizia fascista e, il 22 febbraio 1944, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia. Levi rimarrà nel lager per undici mesi, fino alla liberazione da parte dell'Armata Rossa.
L'esperienza nel campo di concentramento emerge nei romanzi Se questo è un uomo (pubblicato una prima volta nel 1947 e, nuovamente, nel 1956), La tregua (1962) e I sommersi e i salvati (1986).
Muore l'11 aprile 1987, a Torino.