Guida alla lettura
Due le strade di guarigione che, secondo Vanier, la persona depressa non può esimersi dal percorrere (la terza, quella dell’aiuto farmacologico, è comunque ricordata, a dimostrazione del fatto che la buona filosofia sa stare con i piedi ben piantati anche nella “terra” della biologia): il riposo, contro ogni tentazione attivistica che soffochi illusoriamente l’inquietudine e l’angoscia, e l’introspezione, per capire da dove vengano le forze mortali che ci tengono prigionieri, dar loro un nome e combatterle con risolutezza. Due condizioni che confluiscono in quella capacità di “habitare secum” che per gli Antichi costituiva il primo requisito della sapienza.
Riposo e introspezione, però, devono contemperarsi con l’equilibrio di chi sa di non potersi sottrarre alle responsabilità concrete e spesso impellenti della vita quotidiana, e l’umile accettazione di essere aiutati e accompagnati, nel difficile cammino, non solo dalle persone più care ma anche da professionisti competenti. Solo così, sottolinea Vanier, si scopre che anche nella sofferenza emotiva «ci possono essere delle oasi di pace» e, riaprendosi costantemente alla vita, si può intraprendere «un vero lavoro di liberazione».
Eppure, a un dato momento, bisogna avere il coraggio di arrestare l’attività febbrile o la ricerca di distrazioni superficiali per prendersi un po’ di riposo. È allora che le angosce tenebrose riemergono in superficie, compare il vuoto interiore, ma si può cercare, in modo nuovo, di trovare la calma. Si scoprono così, a poco a poco, alcuni piccoli accorgimenti per rilassarsi: fare cucina, passeggiare, ascoltare una musica dolce, entrare in una chiesa, dedicarsi a un’attività che procuri un po’ di gioia, parlare con un amico, giocare con un neonato; piccole cose che danno un po’ di pace e di tranquillità interiore. Si è pienamente consapevoli delle proprie fragilità, ma si scopre anche che ci possono essere delle oasi di pace.
Bisogna saper gustare questi momenti di serenità: respirare tranquillamente, lasciar affiorare nel cuore minuscole scintille di gioia, lasciare che il calore del sole entri nel corpo, vivere istanti di benessere. La sera, se puoi, prima di coricarti, fa’ un bagno caldo, e cogli l’occasione per riposarti, distenderti. Scoprirai allora, a poco a poco, per quali vie si arriva alla pace e alla luce, e quali sono invece quelle mortifere. Se vuoi vivere nella luce e nella pace ci saranno probabilmente alcune situazioni e alcune persone da evitare, forse amici o vicini che, per le loro paure, difficoltà, con l’angoscia e i pregiudizi che si portano dietro, inducono al turbamento; certi programmi televisivi, certe riviste. Scoprirai che la tua psiche, così come il tuo corpo, ha bisogno di un determinato tipo di nutrimento, mentre altri cibi sono come veleni, fanno male. Esattamente come chi sa che se mangia troppo cioccolato avrà una crisi di fegato!
Scopri allora come la tua vita, il tuo corpo, la tua psiche siano una realtà fragile e delicata. Non puoi farne quello che vuoi. Devi custodire te stesso, avere cura di te, vigilare su quelle occasioni di distensione, quegli incontri, quei momenti che ti aiutano a rimanere nella luce.
Naturalmente bisogna trovare un equilibrio. Non è il caso di mettersi in pensione prima del tempo! E non bisogna neanche preoccuparsi costantemente per la propria salute quando si è giovani. Saper vivere è anche trovare questo equilibrio. È saper fare delle scelte, optare per ciò che ti aiuta a vivere nella pace e nella comunione, evitando quello che turba e mette in agitazione il cuore. Ecco qual è il miglior modo di lottare contro le potenze di morte. Ma a volte la lotta è dura. Bisogna dire un “no” risoluto alla morte e ripetere costantemente il nostro “sì” alla vita. È un atto di fede.
Tutto questo può sembrare idealistico. A volte ci sono i figli da mantenere e da andare a prendere a scuola, un marito magari un po’ difficile, un lavoro faticoso. È vero, ognuno di noi ha delle responsabilità, delle cose da fare. Non possiamo metterci in vacanza. E tuttavia, la liberazione può avvenire solo se il corpo si prende un po’ di riposo. Se il nostro corpo e la nostra psiche sono tesi e stressati non si può intraprendere un vero lavoro di liberazione. Ognuno di noi deve imparare a rinunciare a certe attività, a non essere iperattivo e sempre impegnato a “fare” delle cose. Ognuno deve imparare a fermarsi per poter guardare serenamente gli altri e il mondo, per accogliere la pace.
Ma per attuare una pausa di questo tipo bisogna essere aiutati. Magari il medico può prescrivere qualche giorno di malattia; oppure il marito (o la moglie, o un amico), constatando che la fatica e lo stress sono molto forti, può aiutare a discernere il modo più adeguato per riposarsi.
Poi verrà il momento in cui dovremo esaminare più da vicino queste forze tenebrose. Non più fuggirle, ma cercare di scoprire da dove vengono e perché riescono a impossessarsi di noi in questo modo. È mille volte meglio affrontare la realtà che lasciarsi dominare da pensieri confusi e sensazioni vaghe, in balia di un mondo immaginario che fa paura.
Per discendere in queste tenebre bisogna essere accompagnati da una persona competente. Senza questo tipo di accompagnamento non riusciremmo mai a scrutare le tenebre, non potremmo riconoscerle, né sopportarle nel momento in cui si svelano a noi, a poco a poco, attraverso il colloquio, i disegni, i sogni, le associazioni di idee e di immagini, che sono tutte vie diverse per raggiungere quel mondo che è celato alla coscienza. Può anche capitare di aver bisogno che un medico prescriva degli antidepressivi. Queste medicine possono avere un effetto positivo, restituendo all’organismo sostanze chimiche che sono state "mangiate" dalla depressione. Allora esse ridanno tono alla persona.
Con la nostra intelligenza e il nostro cuore, e soprattutto con un aiuto, possiamo proiettare un po’ di luce nelle tenebre. Ma bisogna affrontarle con pace e fiducia; direi quasi: avviare un dialogo. Se continuiamo a rifuggire i mostri che ci portiamo dentro, questi crescono e assumono proporzioni enormi. Ma se ci fermiamo per guardarli in faccia senza paura, per affrontarli, indietreggiano, si ridimensionano e assumono le loro vere proporzioni. Allora non permettiamo più che a governarci siano loro, e neanche la paura che ci incutono.
Biografia
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si trova a Parigi. Nel 1940, la sua famiglia si rifugia in Inghilterra, su un’affollatissima nave di rifugiati. E’ questo il primo contatto del giovanissimo Jean con il dramma dell’emarginazione. L’anno successivo, tornato in Canada, Vanier sente il bisogno di contribuire alla liberazione dell’Europa e si iscrive al College della Marina Reale Inglese: inizia così una precoce carriera che lo vedrà prima cadetto e poi ufficiale della Marina britannica e della Marina canadese. A vent’anni, però, abbandona la vita militare per intraprendere gli studi umanistici: studia filosofia all’università di Parigi, ove consegue il dottorato, e successivamente insegna per alcuni anni a Toronto.
Nel 1963, la vera e definitiva svolta della sua vita: l’incontro con la disabilità mentale e fisica. E’ lui stesso a raccontare: «Mi trovavo di nuovo in Francia, e un sacerdote mi mise in contatto con alcuni ragazzi che non erano assetati di studio, ma si chiedevano: chi sono, perché sono così, perché i miei genitori non sono felici che io esista?». Colpito da quegli incontri, l’anno dopo Vanier accoglie con sé due giovani disabili, Raphael e Philippe, in una casetta a Trosly-Breuil, villaggio a nord di Parigi. Inizia così l’esperienza delle comunità dell’Arca.
«A poco a poco – ricorda ancora Vanier – mi sono reso conto della profonda ferita che segna le persone disabili. Anche se attentamente curate, non comprendono perché sono emarginate, perché non vivono come i loro fratelli e le loro sorelle. E può succedere anche che siano gravemente oppresse: ho visto, in giro per il mondo, bambini incatenati, uomini e donne ammassati nella sporcizia. L’esperienza mi ha insegnato che la loro violenza, le loro stranezze, la loro depressione sono una richiesta di vera relazione: “Vale la pena occuparsi di me? Posso essere amato come gli altri?”. La sola risposta possibile è che un altro cuore dica loro: “Sì, tu lo meriti. Sono disposto ad impegnarmi con te perché voglio che tu viva in piena dignità”».
Nel 1971, con Marie Melene Matthieu, fonda il movimento “Fede e Luce”, che riunisce persone con handicap, i loro genitori e i loro amici per condividere momenti di divertimento e di preghiera.
Fino al 1981 Vanier gestisce personalmente la comunità dell’Arca di Trosly-Breuil, dove attualmente vive. La sua sensibilità e il suo lavoro per costruire una società più umana sono stati riconosciuti anche attraverso riconoscimenti come la Legion d’Onore in Francia, il Premio Internazionale Paolo VI, il Premio umanitario Rabbi Gunther Plaut.
In una recente intervista, ha affermato: «Fra i nostri ospiti c’è anche chi non ha la possibilità di parlare. E allora comunichiamo attraverso gli occhi. Con loro, io che prima ero sempre stato con persone vincenti ho scoperto persone che hanno perso tutto. La malattia mentale è una grossa domanda per il nostro mondo. Ma viviamo in un mondo che ancora fa fatica ad accettare chi è disabile. Eppure, siamo nati tutti nella debolezza, e moriremo nella debolezza. E tutti abbiamo bisogno di sentirci apprezzati e di essere considerati unici: di non essere un numero in un gregge, ma di essere ascoltati e amati. E’ un bisogno che va al di là di qualsiasi capacità o incapacità».
Oggi nel mondo ci sono oltre 130 comunità dell’Arca, e oltre mille comunità “Fede e Luce”. La loro carta costitutiva dice: «Le nostre comunità non sono una soluzione ma un segno, il segno che una società realmente umana deve essere fondata sull’accoglienza e sul rispetto dei più piccoli e dei più deboli».
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