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Nel dolore del lutto

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11/03/2009

Prof. Roberto Mancini
Docente di Ermeneutica Filosofica, Università di Macerata

La cosa più crudele e disperante che possiamo sperimentare è la perdita di una persona amata. Se l’umanità fosse compiuta, finalmente giunta a vivere la propria vera identità, allora sentiremmo questo dolore dinanzi alla perdita di ogni persona, sentita come sorella o fratello amato. E’ un’esperienza di distruzione subìta, di crollo dell’ordine di vita cui avevamo aderito, una messa in discussione di tutto il nostro essere. Con il passare delle ore, dei giorni, dei mesi, il dolore entra in noi come un liquido scuro che invade tutto, che poi si pietrifica dentro, toglie il respiro, spegne gli impulsi vitali, fa chiudere lo sguardo. Si instaura così l’unica permanenza stabile, che appare interminabile, quella del dolore stesso.

Ha scritto Dino Buzzati che “ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro” (I due autisti, ne La boutique del mistero, Milano, Mondadori, 1977, p. 223). Scopriamo allora la vanità delle parole, la pesantezza del silenzio, il disinteresse per l’esistenza e infine, con sgomento, l’esposizione di ogni vita all’imminente potenza della morte.

Il discorso potrebbe finire qui, se non fosse che proprio il dolore e la perdita - visto che restiamo in qualche modo vivi, anche se sentiamo morta una parte essenziale di noi - ci chiedono una risposta. Di solito chiedono una fede mantenuta e alimentata dalla paura. La fede richiesta chiede di credere al dolore come realtà suprema e come forza unica dell’universo, nonché di credere alla morte come verità, senso, misura, destinazione ultima della vita. La paura, naturalmente, è la paura del dolore. Nostro e dei nostri cari.

Così, quando siamo guidati da questa paura, siamo capaci di fare qualsiasi cosa e cadiamo in mille equivoci. Soprattutto perdiamo il senso della fedeltà alla felicità, che è la vocazione, la luce, il respiro della vita umana. Con il senso della fedeltà alla felicità perdiamo fatalmente anche l’apertura all’amore ricevuto e ricomunicato, perché nel cuore dell’amore e alle sue sorgenti c’è la gioia. Infatti amare qualcuno significa essenzialmente sognarne l’esistenza, se sta per nascere, e, se è già nato, essere felici solo perché questo qualcuno è al mondo: e voler bene significa condividere gioia. Non riversare ansia, aggressività, angoscia, sfiducia, disperazione sull’altro.

Così, se perdiamo l’apertura alla gioia e il senso della fedeltà alla felicità - che non ha nulla di egoistico perché essa non si dà senza o contro gli altri -, perdiamo la nostra luce, la vitalità più profonda in cui si radica la nostra umanità. Allora anche di chi resta, oltre che di chi è morto, si dovrebbe dire “si è spento”. E rimaniamo spenti anche quando siamo nella tensione della paura del dolore.

Ma solo questa è la reazione possibile al lutto? Di più: è questa la reazione obbligata, necessaria, vera? Ogni volta che stiamo reagendo a qualcosa, a qualcuno, oppure a un evento, come anche appunto nel caso del lutto, guardando per un attimo a dove siamo e a che cosa stiamo facendo, lucidità vorrebbe che capissimo come, in realtà, abbiamo diverse possibilità, non una sola. E se, come sovente accade, proprio la lucidità viene meno, chi sta vicino a quanti sono sommersi nel lutto dovrebbe aiutare proprio la ripresa della lucidità, che non ha nulla a che vedere con le consolazioni fittizie e a buon mercato.

Perché sostengo che la lucidità indica più strade, quando nel dolore della perdita ne vediamo a stento una, quella della resa pura e semplice? Perché dove c’è reazione di fatto è stata scartata un’altra possibilità, che pure permane disponibile benché sia per il momento ignorata: è la possibilità della risposta. Voglio dire che noi possiamo o ridurci a reagire semplicemente, ed è la resa totale, oppure possiamo rispondere, ossia dare una risposta originale, nostra, libera. La libertà umana, anche e proprio dinanzi al negativo, inizia lì dove cessa la reazione e inizia la risposta. Cioè inizia la responsabilità, nel senso non moralistico e neppure giuridico del termine, ma nel senso esistenziale, creativo, spirituale.

Riconoscersi il potere di dare una risposta significa stabilire una relativa distanza dal lutto in sé, prendere una posizione, introdurre nella situazione che si è creata con la morte della persona amata un elemento eterogeneo rispetto alla materia oscura della fede nella morte, della paura, del terrore.

Rispondere alla morte d’altri significa esprimere un "ateismo" salutare: l’incredulità nella morte stessa in quanto assoluto, la revoca dell’adesione all’idea che essa, come si dice in un racconto di Isaac Singer, sia il vero Messia. Senza questo ateismo nessuna fede positiva e autentica - nella vita, nell’amore, nell’umanità, in un Dio vero - è possibile.

A partire da questa svolta, che giustamente Albert Camus avrebbe chiamato più precisamente rivolta, si aprono le possibilità concrete e positive latenti nell’esperienza del lutto. In fondo si può dire che senza passare per questa porta stretta nulla di buono che abbiamo cercato di fare riesce ad assumere la consistenza che è richiesta dalla vita. Se il dolore profondo, il lutto, la morte spazzano via il senso e il bene cui prima di essere colpiti credevamo, allora quello che stavamo costruendo era in ogni caso troppo debole. Con ciò non voglio giustificare il dolore del lutto, renderlo “utile” e pedagogico: il dolore e la morte, in se stessi, restano ingiustificabili; non sono una strumento per un bene superiore. La leva positiva non sta in essi, sta nella risposta che sappiamo dare loro. Dunque sta nella misteriosa forza alternativa al dolore che ci dà l’energia e la creatività di una risposta vera. Credo che questa forza sia l’amore, che esso venga da sinceri legami affettivi tra le persone o che esso venga innanzitutto da un Dio paterno e materno.

Mi limito, a conclusione di questa riflessione, a indicare alcune delle possibilità positive che possono schiudersi, inaspettatamente, nel lutto. Il silenzio, dove possiamo sentire che l’amato scomparso non ci abbandona ma continua il dialogo con noi in una misteriosa prossimità. La traduzione dell’amore, nel senso che l’amore che ci lega tuttora a chi è scomparso chiede di essere portato e comunicato ad altri, potendo così non tanto continuare a vivere immutato (perché il terzo che sarà amato non è né un sostituto che rimpiazza lo scomparso, né un pretesto per amare solo quest’ultimo) quanto estendersi e moltiplicarsi. La compassione, perché ora il nostro dolore, sorretto dall’amore, diviene un organo di conoscenza e di prossimità che ci fa riconoscere e sentire il dolore degli altri. La speranza, perché dove cade la fede nella morte, lì sorge luminosa la fede nell’amore. E con essa la nuova consapevolezza che “gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare” (Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, Milano, Bompiani, 1987, p. 182).

Dunque non è stolto credere che tutto può essere, potrà essere diverso. Anziché essere convinti della fine di tutte le cose, possiamo almeno riconoscere che l’esito della vita di ognuno è custodito nel mistero e già questo basta a non delegittimare la speranza della liberazione radicale, quella che ogni creatura, se le fosse permesso di sognare, sognerebbe: la liberazione dal male e dalla morte.

Da ultimo voglio ricordare la possibilità più incredibile di tutte, quella che ogni sofferente tende a dare sicuramente per impossibile: la consolazione. Tutt’al più possiamo dare credito a qualche anestetico: l’affetto di altri, il cibo, il lavoro, le droghe e così via. Ma che si dia consolazione per la perdita di qualcuno, questo non lo crediamo. C’è qualcosa di vero in tale atteggiamento: la consolazione per noi rimane sospesa semmai al mistero della destinazione universale della vita. Quindi per lo più restiamo inconsolati, se la consolazione cui ci riferiamo è la consolazione ricevuta. Si noti che, con la parola “consolazione”, non intendo né la rassegnazione, né l’oblio, né quel senso distorto di merito pseudoreligioso che c’è nell’idea di “offrire il dolore a Dio”, come se Dio fosse un sadico che gode di simili offerte.

Nondimeno, la consolazione autentica esiste. Infatti ci è anche dato di scoprire che, se al lutto rispondiamo con amore, possiamo noi consolare qualcuno, la nostra vicinanza può contribuire a liberare altri non dal dolore, ma dal peso della disperazione e della rinuncia all’amore. Allora, forse, la consolazione data può far sì che sia ospitato in noi il seme della consolazione ricevuta.

Biografia

Roberto Mancini, nato a Macerata nel 1958, è professore ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università di Macerata, dove è anche Presidente del Corso di Laurea in Filosofia e Vice Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia.
Collabora con le riviste “Servitium”, “Ermeneutica Letteraria” e “Altreconomia”. Dirige la collana “Orizzonte Filosofico” dell’editrice Cittadella di Assisi. E’ membro del Comitato Scientifico della Scuola di Pace della Provincia di Lucca e della Scuola di Pace del Comune di Senigallia.
Oltre a circa 200 articoli e saggi brevi di etica, antropologia filosofica, teoria della verità e filosofia della religione, ha pubblicato i seguenti volumi:
- L’uomo quotidiano, Marietti 1985;
- Linguaggio e etica, Marietti 1988;
- Comunicazione come ecumene, Queriniana 1991;
- L’ascolto come radice: teoria dialogica della verità, Edizioni Scientifiche Italiane 1995;
- Esistenza e gratuità. Antropologia della condivisione, Cittadella 1996;
- Il dono del senso, Cittadella 1999;
- Il silenzio, via verso la vita, Qiqajon 2002;
- Senso e futuro della politica, Cittadella 2002;
- L’uomo e la comunità, Qiqajon 2004;
- Il senso del tempo e il suo mistero, Pazzini 2005;
- L’amore politico: sulla via della nonviolenza con Gandhi, Capitini e Levinas, Cittadella 2005;
- Esistere nascendo: la filosofia maieutica di Maria Zambrano, Edizioni Città Aperta 2007;
- L’umanità promessa. Vivere il cristianesimo nell’età della globalizzazione, Pazzini 2008.
In collaborazione con altri autori ha inoltre scritto “Etiche della mondialità” (Cittadella 2007).
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
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