Guida alla lettura
Nora, la protagonista, è la moglie felice e vezzeggiata dell’avvocato Torvald Helmer. La loro vita sembra svolgersi senza problemi sino a quando la donna, in un momento economicamente difficile, contrae un forte debito falsificando la firma del padre. Il marito, venuto a conoscenza del fatto e unicamente preoccupato del suo buon nome, sfoga con Nora il suo livore: ma poi, rassicurato che nessuno scandalo scoppierà, si dichiara pronto a perdonarla e recupera verso di lei il consueto atteggiamento autoritario e paternalista.
Ma Nora ha ormai maturato una nuova coscienza della sua condizione di donna adulta. I rapporti col marito, come prima quelli col padre, le si rivelano in tutta la loro vacuità: trattata da entrambi come una bambina superficiale e sventata, si ribella al gioco perverso della dipendenza e decide di acquisire da sola quell’esperienza che le è stata sino a quel momento sottratta. Anche se questo le costerà, è giusto sottolinearlo per non cedere alla tentazione di una lettura idealistica della vicenda, l’abbandono dei figli.
Al suo apparire, nel 1879, il dramma sollevò non poco scalpore, e fu accusato di voler sposare in modo troppo diretto la causa del femminismo nascente. In realtà, la problematica che affronta è molto più complessa: il progressivo conflitto interiore di una donna che scopre la propria dignità, i propri diritti, la propria chiamata a un’esistenza autonoma e responsabile in opposizione al ruolo di bambina-bambola cui per troppo tempo l’avevano relegata il padre e il marito.
Il dialogo che riportiamo, punto di svolta della crisi, mette in luce la mentalità di Torvald, e i suoi tentativi sempre più goffi e disperati di manipolare Nora; così come la dolente ma risoluta decisione della donna, non più disposta ad accontentarsi “di quel dice la gente e di quel che sta scritto nei libri”, e pronta a intraprendere una nuova vita di cui peraltro non ignora le sfide e le difficoltà.
Quante giovani, quante donne, ancora oggi, subiscono in silenzio la sofferenza di una vita costretta all’interno di una gabbia dorata? Al loro dolore, al risveglio della loro coscienza, al loro cammino verso la responsabilità e la dignità dedichiamo questa pagina immortale.
Nora: È vero.
Helmer: Tu mi hai amato come una moglie deve amare suo marito. E’ stato solo nella scelta dei mezzi che non hai avuto abbastanza giudizio. Ma credi forse che mi sei meno cara perché non sai regolarti bene da te? No, no. Tu non devi fare altro che appoggiarti a me. Io ti saprò consigliare, ti saprò guidare. Non sarei un uomo, se non vedessi proprio in questa tua debolezza femminile un tratto che ti rende ancor più attraente ai miei occhi. Tu non devi dare troppa importanza alle parole dure che ti ho detto nel primo istante di terrore, quando sembrava che tutto fosse per crollare sopra di me. Ti ho perdonato tutto, Nora! Te lo giuro. Ti ho perdonato!
Nora: Grazie per il tuo perdono.
Helmer: Cerca di calmarti, ora... cerca di ritrovare il tuo equilibrio, canarino mio spaventato. Riposa pur tranquilla! lo posseggo ali abbastanza larghe per sorreggerti. Com’è bello e accogliente il nostro nido, Nora! Qui dentro tu sei al sicuro. lo ti ci terrò come una colombella spaurita che sia riuscito a strappare sana e salva agli artigli di un falco, e saprò calmare il tuo povero cuore palpitante, non dubitare!... L’uomo prova una indescrivibile dolcezza e soddisfazione nel constatare in se stesso di aver perdonato alla propria moglie... di averle perdonato sinceramente, senza riserve. Con questo ella diventa per così dire doppiamente sua: è come se egli l’avesse rimessa al mondo. Ella è divenuta in qualche modo la sua sposa e la sua figliuolina, ad un tempo. Così sarai anche tu per me d’ora in poi, bambina mia debole e smarrita! Non aver timore di nulla, Nora! Devi solo esser franca con me, ed io sarò insieme la tua coscienza e la tua volontà... Ma che c’è? non sei andata a letto? ti sei rivestita?
Nora: Sì, Torvald, mi sono rivestita.
Helmer: Perché mai? A quest’ora?
Nora: Stanotte io non dormirò.
Helmer: Ma, cara Nora...
Nora: Non è poi così tardi. Siediti, Torvald. Abbiamo da dirci molte cose noi due.
Helmer: Nora!... che significa?... Questa tua espressione glaciale...
Nora: Mettiti a sedere. Il discorso sarà lungo. Ho da parlarti di tante cose.
Helmer: Tu mi spaventi, Nora. E non arrivo a comprendere.
Nora: Sì, lo so. Tu non mi capisci. E nemmeno io ti avevo mai capito... prima di stasera. No! non interrompermi! Tu devi solo stare a sentire quel che ti dirò... Questa è una resa di conti, Torvald.
Helmer: Che vuoi dire?
Nora: Non hai osservato una cosa, mentre siamo qui a sedere?
Helmer: Che cosa?
Nora: Siamo sposati da otto anni. Non noti ch’è questa la prima volta in cui noi due, tu ed io, marito e moglie, parliamo insieme seriamente?
Helmer: Sì, seriamente... In che senso?
Nora: Per otto lunghi anni, anzi più, se contiamo da quando ci siamo conosciuti, noi non abbiamo mai scambiato due parole serie su un argomento serio.
Helmer: Avrei forse dovuto metterti continuamente a parte di preoccupazioni, di noie, dove tu dopo tutto non potevi essermi di alcun aiuto?
Nora: lo non parlo di noie e di preoccupazioni. Dico solo che noi non ci siamo mai ritrovati seriamente insieme, per cercar di venire a capo di qualche cosa.
Helmer: Ma, Nora mia carissima, sarebbe stata una cosa adatta per te?
Nora: Eccoci al punto! Tu non mi hai mai compresa... Io ho ricevuto una quantità di torti: prima dal babbo e poi da te, Torvald.
Helmer: Ma che dici mai? Da noi due?... da noi due che ti abbiamo voluto bene più di ogni altra persona al mondo?
Nora: Voi non mi avete mai amata. Avete solo trovato ch’era piacevole essere innamorati di me.
Helmer: Ma, Nora, come puoi dire certe enormità!
Nora: Sì, Torvald, è proprio così. Quand’ero a casa con papà, lui mi esponeva tutte le sue idee, e quindi io avevo quelle sue stesse opinioni. Ma se per caso ne avevo altre, non davo a vederlo, giacché gli avrebbe fatto dispiacere. Papà mi chiamava la sua bambolina e giocava con me, com’io giocavo con le mie bambole. Poi venni ad abitare con te...
Helmer: Che razza di espressioni adoperi per indicare il nostro matrimonio!
Nora: Voglio dire che passai dalle mani del babbo nelle tue. Tu arredasti la casa secondo il tuo gusto, ed io acquistai gli stessi tuoi gusti, oppure feci le viste che così fosse... non lo so bene nemmeno io: forse l’una cosa e l’altra, secondo i momenti. Quando ci ripenso, mi sembra di esser vissuta qui alla giornata, come un povero mendicante. La mia vita è consistita nel divertire te, Torvald, con le mie moine; ma eri tu che lo volevi. Tu e il babbo vi siete macchiati di un grave peccato verso di me. È colpa vostra se non ho concluso nulla.
Helmer: Sei veramente assurda e ingrata. Non sei stata forse felice qui?
Nora: No, non lo sono mai stata. Credevo di esserlo, ma non lo sono stata mai.
Helmer: Sicché non sei stata felice?
Nora: Felice no. Solo allegra. E tu sei stato sempre molto carino con me. Ma la nostra casa non è stata altro che una palestra di giochi. Qui sono stata la tua moglie-bambola, così come da ragazza ero la bambina di papà. E i bambini a loro volta sono stati le mie bambole. Quando tu ti mettevi a giocare con me, io trovavo ch’era una cosa divertente, né più né meno come i miei bambini si divertivano quando mi mettevo a giocare con loro. Ecco ciò ch’è stato il nostro matrimonio, Torvald.
Helmer: In quel che dici c’è qualcosa di vero, per quanto esagerato e drammatizzato. Ma d’ora in poi, vita nuova! Il tempo dei giochi è passato! Ora viene quello della formazione educativa.
Nora: La formazione educativa di chi? mia o dei bambini?
Helmer: Tua e dei bambini, Nora mia carissima.
Nora: Ah, Torvald! tu non sei il tipo capace di educarmi ad essere una buona moglie per te!
Helmer: E lo dici tu stessa?
Nora: Ed io... sono forse in grado di educare i bambini, io?
Helmer: Nora!
Nora: Non hai detto tu stesso, poco fa, che non ti arrischiavi ad affidarmi un tale compito?
Helmer: L’ho detto in un momento di stizza! Perché vuoi farci caso?
Nora: Ma avevi perfettamente ragione. Io non mi sento all’altezza di quel compito. C’è un altro problema più urgente: educare me stessa. Tu non sei l’uomo fatto per aiutarmi a risolverlo. Bisogna che vi provveda da me sola. E perciò me ne vado via.
Helmer: Ma che stai dicendo?
Nora: Bisogna ch’io sia perfettamente sola, se debbo veder chiaro in me stessa e in tutto il resto. E’ per questo ch’io non posso restare più a lungo con te...
Helmer: Ma tu sei pazza! tu non puoi fare una cosa simile! Te lo proibisco!
Nora: Ormai è perfettamente inutile proibirmi questo o quello. Porterò con me solo ciò che mi appartiene personalmente. Da te non voglio nulla, né ora, né dopo...
Helmer: Che ne sarà di te, povera creatura accecata e inesperta?
Nora: Guarderò di acquistarla, l’esperienza, Torvald.
Helmer: Abbandonare la tua casa, il marito, i figli! E non pensi poi a quel che dirà la gente...
Nora: Questo non mi fa né caldo né freddo. lo so soltanto ch’è un provvedimento indispensabile per me.
Helmer: Oh, ma è una cosa indegna! E tu puoi così venire meno ai tuoi più sacri doveri?
Nora: Quali sarebbero, secondo te, i miei più sacri doveri?
Helmer: C’è bisogno di dirlo? O non son forse quelli che hai verso tuo marito e i tuoi figli?
Nora: lo ho altri doveri non meno sacri.
Helmer: Niente affatto! E quali sarebbero, sentiamo?
Nora: I doveri verso me stessa.
Helmer: Tu sei innanzi tutto moglie e madre.
Nora: Una volta lo credevo; ora non più. lo credo che sono innanzi tutto e soprattutto una creatura umana, io al pari di te... o almeno credo che debbo cercare di diventarlo. So bene che in genere la gente condivide la tua opinione, Torvald, e che nei libri si parla su per giù a questo modo; ma io non posso più contentarmi di quel che dice la gente e di quel che sta scritto nei libri. Bisogna ch’io mediti da me stessa sulle cose e cerchi di trovarne il bandolo.
Biografia
Trasferitosi a Oslo, studia medicina e nel tempo libero lavora come assistente teatrale e scrittore. Nel 1851 diventa direttore del Norske Theater di Bergen. Successivamente studia scenografia a Copenaghen e a Dresda, e nel 1857 viene nominato direttore del Kristiania Norske Theater.
In quegli anni compone i drammi della cosiddetta “fase romantica”, fra i quali “I guerrieri di Helgeland”, “La commedia dell’amore” e “Peer Gynt” (1867), opera surreale da cui il compositore norvegese Edvard Grieg (1843-1907) trarrà le musiche di scena.
La fase romantica si conclude con la commedia brillante “La lega dei giovani” e il dramma “Cesare e il Galileo” (1873). Il periodo successivo, detto “sociale”, inizia con “I pilastri della società” (1877), seguito da “Casa di bambola” (1879) e da altri capolavori, come “Gli spettri”, “Un nemico del popolo”, “L’anitra selvatica” e “La donna del mare” (1888).
I suoi ultimi lavori sono “John Gabriel Borkmann” e “Quando noi morti ci destiamo” (1899). Muore a Oslo nel 1906.
Scrive Piero Monaci introducendo la sua fondamentale traduzione di “Una casa di bambola”: «Quello di Ibsen è un teatro di pensiero, di idee, perché i suoi personaggi ragionano, cercano, si interrogano. Fino ad allora il teatro si era basato esclusivamente sulla situazione e sull’azione; Ibsen per primo portò sulla scena problemi e realtà di ogni giorno. Non teatro di divertimento, ma di meditazione; teatro polemico, eppure non polemico come poi quello di Shaw, così scintillante e funambolesco; dialettico, ma non dialettico come poi quello di Pirandello, così allucinato e ossessivo... Fu detto anche teatro borghese, perché le sue vicende sono quelle di tutti i giorni, eppure fu il teatro della lotta proprio contro il borghesismo, se per borghese deve intendersi una realtà scontata, accettata senza interrogazione, senza sforzo... I grandi drammi resero noto Ibsen ovunque, sommossero il mondo dal torpore di un falso benessere, e furono presi addirittura a insegna di movimenti: tutti vollero vedervi ciò che vi andavano cercando. In realtà erano la ribellione a ogni acquiescenza, un restituire agli uomini la scontentezza produttiva e l’abito alla critica, indice di vitalità; e per questo grandi furono le polemiche che essi suscitarono».