Guida alla lettura
Due gli snodi centrali del ragionamento. Primo: il dolore – che sia fisico o emotivo – non è un privilegio di vago stampo romantico, o il segno di una particolare attenzione da parte di Dio. E’ invece una realtà banale e bestiale, che abbrutisce chi soffre. Pavese respinge dunque la mentalità doloristica che ha informato di sé tanti secoli di spiritualità cristiana, e contro la quale abbiamo spesso scritto nelle pagine di questa rubrica.
Secondo snodo: il dolore si dipana nel tempo, è esso stesso tempo – “tempo-dolore”, il solo tempo che si riesca a conoscere quando si soffre nel corpo o nello spirito. Questo fluire di giorni tutti uguali è interrotto da sussulti più acuti, ma il vero dolore vive nei lunghi intervalli di attesa, in questa «durata tediosa, esasperante, infinita». Al punto che «viene il momento che si grida senza necessità», pur di spezzare il fluire indistinto del tempo, pur di sentire che il sordo permanere del dolore si è interrotto un istante, «sia pure per intensificarsi».
Le parole di Pavese non lasciano spazio alla speranza, e certamente vanno lette alla luce della depressione e delle angosce esistenziali che dieci anni dopo lo avrebbero portato alla morte. Ma l’intuizione che il dolore si incisti nel tempo, sino a identificarsi con esso, è cosa che tutti possiamo provare quando soffriamo: anche nei momenti di apparente tregua, il tormento cova in profondità, pronto a riesplodere a tradimento.
Cesare Pavese ritornò spesso, nel suo diario, sul tema del dolore: sottolineandone la capacità di obnubilare la naturale tensione dello spirito alla conoscenza di sé («L’effetto del dolore è di creare un filo spinato nella mente e costringere i pensieri a evitare certe aree, per sfuggire alle angosce che vi regnano. In questo senso, soffrire limita l’efficienza spirituale», 17 giugno 1938); chiarendone la tendenza a sopravvivere alle cause stesse che lo hanno generato («Alla lunga un dolore si svincola dall’ansia, dal ricordo, dal sospetto che lo provocò, e vige da solo nell’anima», 12 marzo 1945); denunciando i limiti della solidarietà umana («La cosa più atroce che si può fare a un uomo è negargli che soffra», 5 ottobre 1938); aspirando a uno stoicismo dagli incerti contorni («Per non soffrire occorre convincersi che tutto è sofferenza… Per non soffrire occorre soffrire. Cioè: occorre accettare la sofferenza», 1° novembre 1938). Sino, come era nella sua natura di uomo profondo e sottile, a momenti di commovente ironia: «Non bastano le disgrazie per fare di un fesso una persona intelligente» (2 novembre 1938).
Pavese ci lascia un grande insegnamento: quando si soffre è essenziale spezzare la diade perversa del tempo-dolore, aprire spazi di tregua autentica, lasciare che le cose e le persone che amiamo filtrino nel filo spinato del cordoglio e della paura. Egli si rifugiò nella scrittura, quasi fino all’ultimo («Che cosa mi sostiene? Il lavoro fatto, il lavoro che faccio», 27 febbraio 1950). Altri può trovare conforto nell’amore, nell’amicizia, nella consuetudine con la natura, con gli animali, con i libri. E’ il solo fronte su cui possiamo combattere con pazienza: in attesa della guarigione, e anche quando la guarigione non verrà.
Il dolore non è affatto un privilegio, un segno di nobiltà, un dono di Dio. Il dolore è una cosa bestiale e feroce, banale e gratuita, naturale come l’aria. E’ impalpabile, sfugge a ogni presa e a ogni lotta; vive nel tempo, è la stessa cosa che il tempo; se ha dei sussulti e degli urli, li ha soltanto per lasciar meglio indifeso chi soffre, negli istanti che seguiranno, nei lunghi istanti in cui si riassapora lo strazio passato e si aspetta il successivo. Questi sussulti non sono il dolore propriamente detto, sono istanti di vitalità inventati dai nervi per far sentire la durata del dolore vero, la durata tediosa, esasperante, infinita del tempo-dolore. Chi soffre è sempre in stato d’attesa – attesa del sussulto e attesa del nuovo sussulto. Viene il momento che si preferisce la crisi dell’urlo alla sua attesa. Viene il momento che si grida senza necessità, pur di rompere la corrente del tempo, pur di sentire che accade qualcosa, che la durata eterna del dolore bestiale si è un istante interrotta – sia pure per intensificarsi.
Qualche volta viene il sospetto che la morte – l’inferno – consisterà ancora del fluire di un dolore senza sussulti, senza voce, senza istanti, tutto tempo e tutto eternità, incessante come il fluire del sangue in un corpo che non morirà più.
Biografia
Allievo di Augusto Monti al liceo “D’Azeglio”, il giovane Pavese legge le opere di Gramsci e Gobetti, e frequenta Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Massimo Mila: ma si trova a suo agio anche nelle trattorie, con la gente comune che un giorno sarà la vera protagonista dei suoi romanzi.
Nel 1930 si laurea con la tesi “Sull’interpretazione della poesia di Walt Whitman”. Inizia a lavorare per la rivista “La cultura” ed esordisce come traduttore: nel corso degli anni affronterà, tra gli altri, Herman Melville, James Joyce, John Steinbeck, Daniel Defoe, Charles Dickens e William Faulkner. Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrende alle insistenze della sorella e si iscrive al Partito Nazionale Fascista: una scelta che, in seguito, le rimprovererà aspramente.
Nel 1933 viene fondata la casa editrice Einaudi, al cui progetto Pavese partecipa con entusiasmo. Questi sono anche gli anni della tormentata relazione con Tina Pizzardo, la “donna dalla voce rauca”, un’intellettuale impegnata nella lotta antifascista. Con molta imprudenza e per amore suo, lo scrittore accetta di far giungere al proprio domicilio lettere a lei indirizzate e gravemente compromettenti sul piano politico: scoperto, rifiuta di fare il nome della donna e il 15 maggio 1935 viene condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro, poi ridotti a pochi mesi. Al ritorno, scopre che la donna si è sposata: la delusione lo sprofonda in una grave crisi depressiva, che lo terrà a lungo avvinto alla tentazione del suicidio.
Nel 1936 pubblica la prima raccolta di poesie, “Lavorare stanca” e, nel 1941, il primo romanzo, “Paesi tuoi”, cui seguono “La spiaggia” (1942) e “Feria d’agosto (1946). Chiamato alle armi, viene congedato perché malato di asma. Negli anni del conflitto, avverte una ripugnanza quasi fisica per la violenza: si rifugia nel Monferrato, dove vivrà per due anni “recluso tra le colline”, con l’umiliante sensazione di non saper partecipare alla vita attiva dei suoi compagni di ideali.
Al termine della guerra si iscrive al Partito Comunista, ma anche questa scelta si rivelerà priva di conseguenze pratiche. Il suo impegno è e resta letterario: scrive racconti, romanzi, articoli e saggi, contribuisce alla riorganizzazione dell’Einaudi, si interessa di mitologia, elaborando una teoria sul mito che esprimerà nei “Dialoghi con Leucò” (1947). In quello stesso anno pubblica “Il compagno” (1947); seguiranno, fra gli altri, “La bella estate” e “Prima che il gallo canti” (entrambi del 1949) e “La luna e i falò” (1950). Saranno invece pubblicate postume le “Lettere”, le straordinarie pagine del diario (“Il mestiere di vivere”) e la raccolta di liriche “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, in cui la donna è cantata attraverso i simboli da sempre più eloquenti della sua poetica: la terra, la vigna, il vento, la vita, la morte.
Nel gennaio 1950 conosce a Roma Constance Dowling, una giovane attrice americana di cui si innamora, ma che ben presto lo lascia tornando negli Stati Uniti. A questo nuovo abbandono non riesce a reagire. Scrive sul diario: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». E il 27 agosto si toglie la vita in un albergo di Torino, assumendo una forte dose di sonniferi. Sulla prima pagina dei “Dialoghi con Leucò”, posato sul comodino, annota: «Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi».