Guida alla lettura
La prima parte della poesia è dedicata all’avvicendarsi delle stagioni, in uno stile trasparente e quieto: l’autunno è preannunciato dal vento d’agosto, dalle scroscianti e malinconiche piogge di settembre, dal brivido che scuote la terra all’impallidire del sole. Ogni immagine è percorsa da un nitido realismo e, al tempo stesso, appare liricamente trasfigurata, come in un quadro impressionista. Le parole sono semplici e quotidiane, eppure ci trasportano in un’atmosfera idealizzata, come di sogno.
Nella seconda parte, con sciolta naturalezza, l’autunno diventa la stagione in cui passa «il miglior tempo della nostra vita». Il respiro delle parole si dilata, il ritmo dei versi si fa lento e solenne: tutto esprime, con rattenuta commozione, il rimpianto per la giovinezza perduta e il mesto indugiare dell’addio alla vita.
La nostra cultura, oggi, respinge questa visione pessimistica e attribuisce alla vecchiaia un valore proprio, anche se spesso fondato sull’ossessiva ed equivoca promessa di un prolungamento senza fine dei beni della gioventù: salute, gusti, vitalità. In questo modo, la “terza età” rischia davvero di svuotarsi di senso e divenire una grottesca parodia di ciò che non è più, e non può ritornare. La vecchiaia, invece, può e dovrebbe essere un’occasione di ricerca dell’essenziale, di riscoperta dell’amore e dell’amicizia, di affinamento della cultura e della saggezza, di confronto con le grandi domande dell’esistenza, di pacificazione con il passato in vista dell’incontro con la morte. Solo così può diventare un tempo fecondo: il tempo favorevole e prezioso che gli antichi Greci chiamavano “kairós”, contrapponendolo al tempo “chrónos”, che divora ciecamente ogni realtà.
nel vento d'agosto,
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest'autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
Biografia
A diciassette anni fugge di casa e si trasferisce a Roma. Nel 1906, dopo una lunga gavetta come correttore di bozze, diviene redattore del quotidiano “Avanti!”, iniziando una multiforme carriera giornalistica.
Durante la prima guerra mondiale si reca in Toscana, Veneto e Lombardia. Dopo il conflitto rientra a Roma e con altri intellettuali fonda nel 1919 la rivista letteraria “La Ronda”, che si propone di conciliare classicismo e modernità, propugnando un ideale dell’arte come disciplina: «La poesia profonda – afferma Cardarelli stesso nel manifesto programmatico – è poesia meditata: solo un lungo raccoglimento e un aspro sforzo interiore precedono e preparano la nascite di opere durature».
Poeta di integrale e intransigente classicismo leopardiano, Cardarelli è ricordato per numerose liriche e prose autobiografiche. La prima e forse migliore raccolta di versi è “Prologhi” (1916), cui fanno seguito “Viaggi nel tempo” (1920), “Favole della genesi” (1924), “Terra genitrice” (1925), “Il sole a picco” (1929) e “Parole all’orecchio” (1930), che raccoglie le pagine scritte per “La ronda”, poi ristampate in “Parliamo all’Italia” (1931). Le ultime opere escono nel secondo dopoguerra: “Lettere non spedite” (1947), “Villa Tarantola” (1948) e le impressioni di “Viaggio di un poeta in Russia”, che rielaborano ricordi del 1928.
Cardarelli muore a Roma nel 1959, povero e dimenticato: fu e volle essere sempre un solitario, senza legami sentimentali, senza famiglia, senza neppure una casa. Non ebbe incarichi universitari, non fondò scuole: e rimase un “solitario in Arcadia”, come afferma il titolo di un suo libro del 1947.