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Al termine del soffrire

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Al termine del soffrire
28/04/2021

Tratto da:
Louise Glück, L’iris selvatico. In: L’iris selvatico, Il Saggiatore, 2020

Guida alla lettura

Questa lirica di Louise Glück, delicata ed elegante, scorre sotto i nostri occhi come un corso d’acqua che, colpito da differenti raggi di luce, restituisce bagliori di diversa intensità: le parole raccontano la nascita dell’iris dal disfacimento del bulbo, il trapasso dall’oscurità della terra alla fontana di colori del fiore sbocciato; il senso racconta un altro passaggio, dalla vita alla quiete del nulla, e poi al tutto del divenire incessante del mondo, al flusso di acqua azzurra di un’altra storia, di un’altra vita. Metafora che ricorda le parole nette dell’evangelista Giovanni: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Louise usa parole semplici, ma il suo stile è splendido e raffinato, scandito da immagini veloci come visioni: i rumori confusi, i rami di pino smossi, l’incurvarsi della terra, gli uccelli che sfrecciano fra i cespugli, l’acqua di mare azzurra come il cielo. Al termine del soffrire c’è sempre una porta: l’essenziale è attraversarla restando presenti a se stessi, in modo da poter ricordare. Dopo l’oblio c’è sempre una voce: l’essenziale è che quella voce parli di noi. E se quella porta, quell’oblio sono per noi definitivi, l’essenziale ancora è che altri parli e ricordi di noi e per noi, in una cordata di affetti che dia senso al passato, conforti il presente, alimenti il futuro.
Massimo Bacigalupo, traduttore del libro, osserva nella postfazione: «E’ una trovata, far parlare i fiori, che in mani meno abili potrebbe dar luogo a un racconto dolciastro. Glück sfugge il pericolo e anzi deve il suo successo all’utilizzo sicuro di un’immagine che accenna al luogo comune. I fiori sono scontati come i cioccolatini, e ci vuole un poeta con una visione ferma per farli veramente parlare. Così l’estasi della liberazione dell’iris dalle maglie della terra è detta con forza e concisione negli ultimi versi. Tutta la metrica di Glück è frammentata, nervosa, aliena a facili ritmi. Una dizione lucida e sorvegliatissima, un lessico semplicissimo che non inganna il lettore, tanto più felici in un contesto così carico di metaforicità».
E proprio la traduzione di Bacigalupo ci presenta alcune magnifiche soluzioni metriche e linguistiche, nel pieno rispetto della scansione originale: i termini sono scelti con cura e proprietà (indimenticabili quei rami di pino, quegli uccelli sfreccianti, quelle ombre blu profondo su acqua di mare azzurra); i frequenti enjambement rendono il senso di una voce che cerca le parole per dire l’indicibile, e l’intensità degli eventi; la bellissima rima identica interna (ritorna : ritorna), calco perfetto dell’inglese, produce ciò che descrive, ovvero la ciclicità dell’essere – a onta dell’oblio.
Con i suoi versi, e tanto più oggi, Louise Glück ci dona riposo e speranza in un tempo concitato che, spesso, oscura l’orizzonte con nubi cupe e incerte.
Alla fine del mio soffrire
c’era una porta.
Sentimi bene: ciò che chiami morte
lo ricordo.
Sopra, rumori, rami di pino smossi.
Poi niente. Il sole debole
tremolava sulla superficie secca.
E’ terribile sopravvivere
come coscienza
sepolta sulla terra scura.
Poi finì: ciò che temi, essere
un’anima e non poter
parlare, finì a un tratto, la terra rigida
un poco curvandosi. E quel che mi parve
uccelli sfreccianti in cespugli bassi.
Tu che non ricordi
passaggio dall’altro mondo
ti dico che seppi parlare di nuovo: tutto ciò
che ritorna dall’oblio ritorna
per trovare una voce:
dal centro della mia vita venne
una grande fontana, ombre blu
profondo su acqua di mare azzurra.

At the end of my suffering
there was a door.
Hear me out: that which you call death
I remember.
Overhead, noises, branches of the pine schifting.
Then nothing. The weak sun
flickered over the dry surface.
It is terrible to survive
as consciousness
buried in the dark earth.
Then it was over: that which you fear, being
a soul and unable
to speak, ending abruptly, the stiff earth
bending a little. And what I took to be
birds darting in low shrubs.
You who do not remember
passage from the other world
I tell you I could speak again: whatever
returns from oblivion returns
to find a voice:
from the center of my life came
a great fontain, deep blue
shadows on azure seawater.

Biografia

«Per la sua inconfondibile voce poetica, che con l’austera bellezza rende universale l’esistenza individuale». Questa la motivazione con cui l’Accademia Reale Svedese ha assegnato il Premio Nobel 2020 per la Letteratura alla poetessa Louise Glück, 77 anni, statunitense, nata a New York. Ed era evidentemente un segno del destino che questa donna, che insegna Poesia all’Università di Yale, ricevesse anche il massimo riconoscimento del Nobel, dopo avere già vinto nel 1993 il Premio Pulitzer per la raccolta di liriche “The Wild Iris”. E’ stata paragonata a un’altra gloria americana, Emily Dickinson: due poetesse distanti tra loro per epoca e percorso di vita, ma accomunate dal coraggio di guardare al quotidiano e di scavare nell’angoscia e nella solitudine, con parole intime e limpide, e uno sguardo spirituale alle vicende del mondo.
Cresciuta a Long Island, durante l’adolescenza Louise ha sofferto di anoressia nervosa. Ha frequentato il Sarah Lawrence College e la Columbia University, da dove però è uscita senza conseguire la laurea. Al termine del liceo ha iniziato un percorso di psicanalisi durato sette anni. Di quel periodo, ha annotato: «Ho capito che a un certo punto sarei morta. Quello che sapevo in modo più vivido, più viscerale, era che non volevo morire». Nello stesso saggio descrive la malattia come il risultato dello sforzo di affermare la propria indipendenza dalla madre.
E’ autrice di dodici libri di poesia, fra cui le recenti raccolte “Faithful and Virtuous Night” (2014), vincitrice del National Book Award, e “Poems 1962-2012” (2012), insignita da Los Angeles Times Book Prize.
I primi libri di Glück presentano personaggi alle prese con le conseguenze di relazioni amorose fallite, incontri familiari disastrosi e disperazione esistenziale; il suo lavoro successivo continua a esplorare l’agonia del sé. Secondo la Poetry Foundation di Chicago Louise Glück si distingue, fra i poeti contemporanei degli Stati Uniti, «per la precisione tecnica, la sensibilità e la comprensione della solitudine, dei rapporti familiari, del divorzio e della morte». Nella sua poesia è sempre presente il senso dell’invecchiare, della sofferenza che contamina l’esistenza, e anche l’irrequietezza che deriva dal non conoscere il proprio domani, dall’ansia di scoprire l’orizzonte della propria esistenza, come dipinge in modo mirabile in una breve poesia, “Quel che mi insegnano i fiori”, tratta da “L'iris selvatico”:

Vuoi sapere come passo il tempo?
Cammino sul prato davanti, fingendo
di fingendo di diserbare.
Dovresti sapere che non diserbo mai,
in ginocchio, sradicando
ciuffi di trifoglio dalle aiole fiorite:
in realtà sto cercando coraggio,
qualche indizio che la mia vita cambierà…

In occasione del Nobel ha raccontato al quotidiano New York Times: «Ho scritto di morte da sempre, da quando ho cominciato a scrivere: letteralmente, da quando avevo dieci anni. E sì, invecchiare è complicato. Non solo perché sei più vicina alla morte ma perché tutte le facoltà su cui contavi – la grazia fisica, l’energia, l’agilità mentale – cominciano a essere compromesse, minacciate. Ed è molto interessante scriverne. Anche perché si scrive per avventura. Io scrivo perché voglio essere portata in un luogo di cui non so nulla, voglio essere straniera in un nuovo territorio».
(Biografia a cura di Pino Pignatta)
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