EN
Ricerca libera
Cerca nelle pubblicazioni scientifiche
per professionisti
Vai alla ricerca scientifica
Cerca nelle pubblicazioni divulgative
per pazienti
Vai alla ricerca divulgativa

Comunicare con chi soffre

  • Condividi su
  • Condividi su Facebook
  • Condividi su Whatsapp
  • Condividi su Twitter
  • Condividi su Linkedin
01/09/2010

Tratto da:
Luciano Manicardi, Il linguaggio della sofferenza. Introduzione a: Xavier Thévenot, Ha senso la sofferenza?, Edizioni Qiqajon, Monastero di Bose, Magnano (BI) 2009, p. 9-24

Si ringrazia l’editore per la gentile concessione

Guida alla lettura

Oggi proponiamo un ampio estratto dell’introduzione che Luciano Manicardi, monaco di Bose, ha scritto per il libro “Ha senso la sofferenza?”, di Xavier Thévenot (Edizioni Qiqajon, 2009): un’opera originale e coraggiosa che pone sotto analisi un approccio alla sofferenza molto diffuso fra i cristiani, in particolare cattolici, mostrandone la sostanziale estraneità al contenuto dei Vangeli.
La presentazione del volume, di cui pubblicheremo a breve alcuni passi significativi, fornisce a Manicardi lo spunto per una lettura assai stimolante dei rapporti fra dolore e parola, una lettura che mostra come la malattia possa estraniare il malato rispetto a se stesso e alla vita, e minare gravemente l’autenticità della comunicazione con gli altri: al punto che «la congiura della menzogna, l’inganno pietoso, le risposte evasive, l’umiliante paternalismo, i silenzi imbarazzati, le parole falsamente rassicuranti» diventano spesso, per lui, «il detestabile compagno delle visite dei conoscenti e dei famigliari».
Chi poi è affetto da turbe mentali, da demenza, da malattie gravemente invalidanti, o si trova in stato vegetativo, va incontro a una prova ancora più pesante: essere privato della possibilità di narrare in prima persona il senso del proprio dolore e della propria vita, e diventare un oggetto, un “caso”, intorno a cui media, politici, ecclesiastici, opinione pubblica dibattono con violenza e insensibilità.
Per il credente, l’ultimo stadio di questo viaggio nel territorio ostile del dolore è il senso di abbandono da parte di Dio, e allora «la sua preghiera può divenire ribellione e protesta, o domanda che non trova risposta». Ma il modo in cui Cristo ha affrontato la sofferenza e la morte gli ricorda che «anche un cristiano non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada – insieme con Dio – che lo attraversi».
Per i laici, la sfida non è meno impegnativa: di fronte a chi è reso impotente dalla malattia, l’unico gesto davvero comunicativo è quello «di farsi vicini alla sua impotenza con la propria vulnerabilità, di divenire capaci di ascolto e di presenza». Solo così le nostre parole sul dolore saranno umane e umanizzanti, capaci di autentico conforto.
Questo breve libro è composto da tre interventi di Xavier Thévenot, prete salesiano, teologo morale, a lungo professore all’Institut Catholique di Parigi, morto dopo una lunga malattia il 14 agosto 2004 a poco più di 65 anni. Non si tratta dunque di un discorso unitario e continuo sulla sofferenza, ma frammentario e affidato a generi diversi (un breve saggio e due interviste); non si tratta di un discorso concluso, ma in divenire, scaglionato in anni successivi (1984; 1987; 1990). Tuttavia si tratta di parole sulla sofferenza che sempre sono accompagnate dalla coscienza dell’autore di essere afflitto da una malattia.
Questo innesto della parola che dice la sofferenza nella sofferenza vissuta consente all’autore di accedere all’unico sapere possibile sulla sofferenza, sapere che non è dell’ordine della speculazione o della giustificazione, ma della testimonianza. E il nodo del rapporto tra parola e sofferenza è centrale nella riflessione-testimonianza di Thévenot ed è certamente uno dei motivi che l’ha guidato nel suo lavoro di scrittura. Diffidando dei “bei discorsi” e delle “belle teorie”, mettendo in guardia dalle “scorciatoie del linguaggio” e dagli inganni di un “linguaggio approssimativo” che nutrono frasi spirituali e disumane, elevate e antievangeliche al tempo stesso, l’autore persegue il fine di umanizzare ed evangelizzare la sofferenza e dunque anche le parole sulla sofferenza. Lo stesso carattere frammentario, composito, in fieri, “imperfetto”, cioè non concluso, delle parole qui raccolte onora la verità dell’esperienza umana del soffrire: esperienza che spezza l’esistenza, frantuma i sogni, conduce l’uomo ad abitare da straniero in una regione straniera, in cui deve imparare una lingua nuova e sconosciuta. Qual è la lingua della sofferenza?
Per azzardare una risposta, o forse semplicemente per porre meglio la domanda, dobbiamo forse parlare delle lingue della sofferenza. Perché non si tratta solamente di lingua o linguaggio verbale, ma di linguaggio del corpo, della psiche, dello spirito, della persona nella sua totalità. Il malato è una totalità sofferente. E ciascuno reagisce in modo personale e non standardizzato alle stesse malattie; la sofferenza, poi, sia fisica che psichica, mentre spersonalizza, può persino personalizzare, può condurre una persona a ritrovare il linguaggio suo proprio, quello smarrito in una vita di doveri e di esteriorità, di apparenze e di menzogne...
Ma la sofferenza è esperienza di stranierità. Il sofferente diviene uno straniero nei confronti della vita. Scrive Nietzsche: «Colui che soffre fortemente vede dalla sua condizione, con terribile freddezza, le cose al di fuori: tutte quelle piccole ingannevoli magie in cui di consueto nuotano le cose, quando l’occhio dell’uomo sano vi si affisa, sono invece per lui dileguate; anzi, egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore» (Nietzsche, Aurora, II, 114; in F. Nietzsche, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), vol. V, tomo I, Opere complete di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 19862, p. 83-84).
Questa stranierità rispetto alla vita è drammaticamente vissuta dal malato nell’esperienza di essere improvvisamente o gradualmente reso incapace dei gesti più elementari e semplici: portare un cucchiaio alla bocca, poter fare due passi senza dover essere sostenuto da stampelle o dal braccio di un accompagnatore, leggere un libro senza essere esausto dopo poche righe... E lì risuona tragicamente quell’“al di fuori” di cui parla Nietzsche: le cose si allontanano da me, non sono più alla mia portata, ovvero, la vita mi rigetta.
E Susan Sontag, che ben ha conosciuto il territorio della malattia, afferma in un ormai famoso libro in cui parla dell’“emigrare nel regno della malattia e del viverci”:
«La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro paese» (S. Sontag, Malattia come metafora. Il cancro e la sua mitologia, Einaudi, Torino 1979, p. 3).
Qual è la lingua di questo territorio così comune e così estraneo? Come si comunica in questo paese in cui possiamo giungere a sentire estraneo il nostro corpo, fastidiose le relazioni con gli altri, insulse le loro parole e inutili le nostre?
La sensibilità acuita del malato pone un’esigenza aspra ai sani che gli si affollano intorno: di pronunciare parole vere, di essere nella verità, di relazionarsi a lui, malato, nella verità. La congiura della menzogna che si attua spesso al capezzale del malato per proteggerlo dalla “verità” della sua malattia, l’ipocrisia con cui lo si zittisce quando urla e grida o quando bestemmia, l’inganno pietoso, le risposte evasive, le frasi che spengono le sue domande insistenti («Ma cosa dici?»; «Non pensare a queste cose!»), l’umiliante paternalismo, i silenzi imbarazzati, le parole falsamente rassicuranti, sono spesso, per il malato, il detestabile compagno delle visite dei conoscenti e dei famigliari. Un salmo esprime bene questa situazione:
«Chi viene a visitarmi dice parole false, raccoglie cattiverie nel suo cuore e, uscito, sparla nelle piazze. Contro di me mormorano i miei nemici: L’ha colpito con male incurabile, non si alzerà più dal letto in cui giace» (Sal 41,7-9).
Le parole “false” sono le frasi di rito, quelle che si dicono per dovere, per rassicurare il sofferente («Vedrai che presto ritorni a casa»; «Ti vedo meglio»), impazienti di uscire al più presto dal cospetto del malato e dar libero sfogo a ciò che veramente si pensa («Hai visto com’è ridotto?»; «Poveretto, non gli resta molto da vivere»). La malattia passa al vaglio impietosamente la qualità delle nostre relazioni.
Nella sofferenza anche le relazioni famigliari e amicali possono conoscere brutali scossoni, o vere e proprie rotture: il conoscente e il visitatore può divenire il nemico, l’oggetto su cui sfogare la propria frustrazione e la propria rabbia. La comunicazione non passa indenne la prova della sofferenza.
Ma certamente oggi, nel complesso rapporto tra parola e sofferenza, noi siamo posti di fronte a un particolare aspetto problematico. Che possiamo cogliere nella vita di Gesù stesso quando è appeso alla croce ed esposto ai dileggi dei passanti (Mt 27,39-44). In quella fase finale della sua vita l’impotenza di Gesù si esprime anche nel fatto che la sua vita è privata della parola ed interpretata dalle parole di altri: la gente, le folle; le autorità e i rappresentanti del potere politico; i sacerdoti, gli scribi, ovvero i rappresentanti dell’ufficialità religiosa. Non si tratta solo e tanto dell’evidente debolezza del morente, ma di colui che è espropriato del senso che ha dato alla sua vita.
Sappiamo bene come oggi tante persone, nella fase finale della loro vita (e magari una fase che dura anni), conoscono l’impotenza e la vulnerabilità estreme cui li espongono l’alienazione mentale, la demenza o altre patologie; o si trovano in situazioni di coma o stati vegetativi che li pongono “in balia di”, e dunque anche “in balia delle parole degli altri”. Ora, dietro e dentro a ogni uomo, anche a colui che ha perso la salute psichica o fisica, vi è sempre un essere umano che desidera amore e rispetto. E questo chiede ai nostri occhi e ai nostri cuori di vincere la tentazione di giudicare, di dare sentenze, di definire, di parlare al posto di altri, per assumere uno sguardo capace di misericordia e di longanimità, di pietà e di fede. Lo spettacolo di persone totalmente impotenti e divenute solo “casi” di cui dibattono i mass-media, i politici, gli ecclesiastici, l’opinione pubblica svela un aspetto della violenza e dell’insensibilità di cui spesso danno prova le persone che stanno attorno al letto dove giace il malato: seppelliscono il malato sotto i loro discorsi, ne fanno un oggetto di parola, senza dare a lui la parola, senza ascoltarlo, togliendogli pertanto la qualità soggettiva di persona e il diritto a una relazione degna di questo nome. Di fronte a chi è nell’impotenza il gesto comunicativo e vitale è quello di farsi vicini alla sua impotenza con la propria vulnerabilità. Di divenire capaci di ascolto e di presenza.
Ma nella sofferenza anche la comunicazione con Dio si fa problematica. Il credente conosce l’angoscia di non riconoscere più il volto noto di Dio. La sua preghiera può divenire ribellione e protesta, o domanda che non trova risposta. Fortunatamente la Bibbia ci presenta i Salmi come scuola di preghiera anche nella malattia e nella sofferenza. E i Salmi non temono l’audacia nei confronti di Dio. Spesso poi, i Salmi non sono un dialogo tra uomo e Dio, ma la ricerca ostinata e talvolta disperata di un dialogo:
«Dio mio, chiamo di giorno e non rispondi, di notte non c’è riposo per me» (Sal 22,3); «Signore, tu hai visto: non tacere; mio Signore, non stare lontano da me» (Sal 35,22); «Ascolta la mia preghiera, Signore, porgi l’orecchio al mio grido, non restare sordo al mio pianto» (Sal 39,13); «Non restar muto, o Dio, o Dio, non restare sordo e inerte» (Sal 83,2)...
Sì, vengono i giorni in sui la parola del Signore è rara (cf. 1Sam 3,1), o forse in cui noi non siamo capaci di ascoltarla perché la sofferenza ci chiude in noi stessi e ci rende sordi agli altri, alla realtà, alla voce dello Spirito.
Ma la Scrittura ci presenta anche l’esempio di Gesù e del modo in cui egli ha vissuto la sofferenza. La sua vita, ciò che ha patito, la sua preghiera nelle sue sofferenze, la sua richiesta di essere liberato dal calice amaro (cf. Mt 26,39.42), il suo “Perché?” gridato a Dio sulla croce (cf. Mt 27,46; Mc 15,34) ci insegnano che «anche un cristiano non conosce alcuna strada che aggiri il dolore, ma piuttosto una strada – insieme con Dio – che lo attraversi» (E. Schuchardt, Far fronte allo scacco: “Perché proprio io…?”. Il dolore come occasione per imparare a vivere, in Concilium 5 (1990), p. 86-87).
In ascolto del vangelo, Xavier Thévenot indica una via preziosa per vivere la sofferenza e la malattia: coglierla come occasione per vivere il cammino pasquale dietro a Cristo. Farne un triduo pasquale alla sequela dell’Agnello. Questo cammino è umano, umanissimo, e perciò autenticamente spirituale. Per dire un simile cammino Thévenot usa un linguaggio che rifugge le mistificazioni, i luoghi comuni spirituali, la ripetizione del già noto. Non si stupisca dunque il lettore credente di trovare qui espressioni inusuali circa la sofferenza, e di trovarvi una critica delle frasi anestetizzate e indolori divenute stanca abitudine: le frasi che parlano di “sofferenza redentrice”, di “offerta della propria sofferenza a Dio”, di “valore espiatorio del soffrire umano”, o che predicano una troppo rapida e supina “rassegnazione”.
Se l’uomo è essere di linguaggio, anche la sofferenza, che è al tempo stesso esperienza comune ed esperienza limite, esige un linguaggio umano e umanizzato. Ma essa esige anche un linguaggio evangelico, un linguaggio che annunci la Parola fatta carne e che nell’incarnazione ha partecipato all’umano soffrire. E chiede soprattutto al cristiano di divenire lui stesso, nel suo personalissimo cammino di sofferenza, nel suo corpo, una narrazione vivente del cammino pasquale di Cristo. Gli chiede di divenire evangelo.

Biografia

Luciano Manicardi è nato a Campagnola Emilia (Reggio Emilia) nel 1957. Si è laureato in lettere classiche a Bologna, con una tesi sul Salmo 68. Dal 1981 fa parte della Comunità Monastica di Bose (BI), dove ha continuato gli studi biblici ed è attualmente Maestro dei novizi e, dal 2009, Vice Priore.
Membro della redazione della rivista “Parola, Spirito e Vita” (Dehoniane, Bologna), svolge attività di collaborazione a diverse riviste di argomento biblico e spirituale, tiene conferenze e predicazioni.
Dal 2008 è membro del Comitato Culturale della Fondazione Alessandra Graziottin.
Sullo stesso argomento per pazienti

Vuoi far parte della nostra community e non perderti gli aggiornamenti?

Iscriviti alla newsletter